“Non ti calcola? Calcola di mollarlo”. “Bro il fiato sul collo giusto se è del ventilatore”. “Non restare in silenzio, non stai impazzendo”. Sono alcune delle frasi della campagna “Oltre la punta dell’iceberg”, promossa dalle associazioni Scosse e Fotografi senza Frontiere, che ha coinvolto il Liceo Seneca, l’I.P.S.S.E.O.A. Vespucci e i Centri di aggregazione giovanile (CAG) Matemù, Batti il Tuo Tempo Evolution, Scholè e B-Side. Un progetto nato per sensibilizzare i giovani sulla violenza di genere, sia visibile che invisibile, attraverso un percorso partecipativo che ha visto protagonisti ragazzi e ragazze dai 14 ai 18 anni.
Elena Fierli, responsabile del progetto, spiega al ilfattoquotidiano.it : “La campagna nasce dall’idea di raccontare quel tipo di violenza invisibile e sommersa che sta sotto la punta dell’iceberg. La violenza di genere è un fenomeno strutturale, con profonde radici culturali e che condiziona il modo con cui sviluppiamo le relazioni sociali. E’ su questo che abbiamo scelto di lavorare, dando la parola alle persone protagoniste delle nuove generazioni“. Il progetto è stato sviluppato tra i banchi di scuola e quelli dei centri di aggregazione, utilizzando il linguaggio diretto e autentico dei giovani, senza interventi di “restyling”.
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Durante i laboratori, i partecipanti hanno discusso di violenza di genere, stereotipi e dinamiche di potere, lavorando insieme per dare voce alle esperienze spesso silenziate. Le foto realizzate da Fotografi senza Frontiere hanno arricchito il racconto, rendendo ancora più potente il messaggio. “L’obiettivo era far emergere tutte le tipologie di violenza, comuni e quotidiane, che spesso risultano difficili da nominare e riconoscere”, aggiunge. Secondo Fierli, lavorare con i giovani offre una prospettiva unica: “Nelle scuole i ragazzi e le ragazze sentono un forte bisogno di parlare di violenza, dei loro corpi e dello spazio che abitano. Tuttavia, questo si scontra con timori profondi: non sempre la scuola è percepita come un luogo sicuro”. Nei centri di aggregazione, invece, il contesto cambia. “L’età è più eterogenea, il percorso scolastico differente, ma c’è un’enorme necessità di far sentire la propria voce. I centri diventano spazi in cui risuonare con gli altri e dare risonanza ai propri pensieri”,
Secondo la responsabile del progetto, gli adolescenti di oggi dimostrano una maggiore consapevolezza di sé e una crescente capacità di rivendicare la propria identità, senza il bisogno di conformarsi a schemi predefiniti. Molti esprimono apertamente il proprio orientamento sessuale o il proprio genere, senza sentirsi obbligati a rientrare nelle norme tradizionali. Fierli aggiunge: “Sono più attenti a capire chi sono e a riconoscersi. Ci sono sempre più giovani e collettivi che lottano per i loro diritti e contro le violenze, cercando di fermare ciò che li rende invisibili”.
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Nonostante ciò, i dati evidenziano un paradosso: molti giovani non si sentono ancora sicuri nel raccontarsi o nel prendere parola. Progetti come questo diventano quindi fondamentali, offrendo spazi protetti dove ciascuno può esprimersi liberamente e raccontarsi per ciò che è. “C’è sempre un’ambivalenza tra il desiderio di esprimersi e il timore di farlo“, racconta ancora Fierli. Tuttavia, durante questo percorso, l’ambivalenza è stata superata con entusiasmo: un gruppo ha persino trasformato alcune frasi emerse nei laboratori in una canzone e una coreografia”.
Le nuove generazioni sono molto sensibili ai temi della violenza e ne comprendono la complessità, essendone a volte testimoni o vittime dirette. Tuttavia, emerge una difficoltà nel trasformare questa consapevolezza in azioni concrete. “Le giovani conoscono bene la violenza, la vivono quotidianamente, ma faticano a elaborare strategie per affrontarla. Manca un supporto che li aiuti a modificare i comportamenti o a reagire a partire dalle loro parole”, evidenzia Fierli.
Questa difficoltà è aggravata da una narrazione mediatica che, spettacolarizzando la violenza, finisce spesso per rafforzare gli stereotipi. “Nonostante tutto, i giovani continuano a essere consapevoli e attenti, cercando il modo di superare gli ostacoli imposti da una società che non sempre offre gli strumenti necessari per reagire alle violenze sia visibili che invisibili”.
Resta infine, un senso di scollamento con le istituzioni. “Pochi giorni fa, durante l’inaugurazione della fondazione in onore di Giulia Cecchettin, il ministro Valditara ha affermato che il patriarcato non esiste“, ha ricordato Fierli. “Questo riflette appieno l’atteggiamento di molte istituzioni: quello di girarsi dall’altra parte. Lo dimostrano la cronica mancanza di fondi, come i finanziamenti inadeguati ai centri antiviolenza, e l’assenza di una normativa efficace”. Tuttavia sottolinea che non tutte le istituzioni sono assenti: “Se da un lato la politica spesso manca, dall’altro la scuola no. La scuola è composta da persone che lottano per ribaltare una società intrisa di violenza. È un’istituzione che vuole scardinare stereotipi, pregiudizi e azioni violente, e questo progetto ne è una prova”. Anche se, “capita spesso di incontrare grandi resistenze da parte di alcuni insegnanti, e questo rappresenta un ostacolo importante”.
La lotta contro la violenza di genere passa inevitabilmente attraverso l’educazione e la sensibilizzazione delle nuove generazioni. Progetti come “Oltre la punta dell’iceberg” dimostrano quanto sia fondamentale creare spazi di confronto in cui i giovani possano sentirsi liberi di esprimersi. “A noi piacerebbe”, ha concluso Fierli, “che il 25 novembre non fosse più necessario. Crediamo fermamente che solo attraverso l’educazione si possa costruire una società non patriarcale, in cui ogni persona possa trovare il proprio posto. Se non si forniscono ai giovani gli strumenti giusti, non saremo mai in grado di abbattere ciò che oggi li opprime”. L’obiettivo, dunque, non è solo commemorare o sensibilizzare in una giornata simbolica, ma creare un cambiamento duraturo che renda ogni giorno dell’anno una tappa verso una società più equa e libera dalla violenza.