Secondo l’ultima rilevazione Istat, il 13,5% delle donne tra i 15 e i 70 anni che lavorano o hanno lavorato ha subito molestie in ambito professionale. La stima è al ribasso perché in molte non denunciano. Quasi il 65% delle lavoratrici afferma che non saprebbe cosa fare se fosse vittima di abusi in ufficio e tra uomini e donne l’86% dichiara che in azienda non esiste una figura a cui rivolgersi per denunciare o ricevere supporto in caso di molestie.

In Italia sono due i testi di riferimento per tutelare dalle molestie sul lavoro. La convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil o Ilo, n. 190), che definisce gli abusi in ambito professionale come incompatibili con il lavoro dignitoso, e il codice delle pari opportunità (art. 26), che disciplina le norme contro le molestie sul lavoro nella legislazione italiana. Per superare il gender gap, con il Pnrr è stato introdotto, inoltre, il sistema di certificazione di genere, obbligatorio per le società con più di 50 dipendenti, che incentiva le iniziative di lotta alle violenze di genere. Sulla base dei principi sanciti anche da questi strumenti ogni azienda potrebbe stilare un codice di condotta interno contro le molestie ma non ci sono norme tassative che impongano di farlo e nessuno di questi metodi è applicabile pienamente nelle piccole e medie imprese, che formano il tessuto produttivo del Paese. Accanto a questo manca una formazione al riconoscimento e alla denuncia sulle molestie sul lavoro, spesso taciute perché minimizzate o non capite.

La Convenzione Ilo n. 190 – Va letta in accordo con la Raccomandazione n. 206 sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro ed è uno dei documenti più importanti al mondo per il contrasto degli abusi in ambito professionale. Su 187 paesi dell’Organizzazione internazionale del lavoro solo 36 oggi l’hanno adottata e l’Italia è stata la seconda in Europa dopo la Grecia a ratificarla, nel 2021. Con la sua ratifica, il nostro Paese si è impegnato a normare la lotta alle molestie sul lavoro, a promuovere il riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva come modalità per prevenire la violenza e le molestie, a introdurre misure per proteggere chi denuncia da eventuali ritorsioni e a lavorare sui risarcimenti. Anni prima di ratificare la convenzione, in effetti, esisteva già un codice nazionale di riferimento per le molestie sui luoghi di lavoro, cioè il codice delle pari opportunità, che rimane il principale testo normativo a cui le vittime possono appellarsi.

Il Codice delle pari opportunità – Dal 2008 il codice delle pari opportunità (d.lgs. 2006) definisce espressamente come discriminazioni le molestie e le molestie sessuali sul luogo di lavoro. In base a questa normativa (art. 26, 3 bis) il lavoratore o la lavoratrice che denuncia una violazione non può essere sanzionato, demansionato, licenziato né sottoposto a qualunque altra misura possa avere ripercussioni sulla propria carriera. Per fare rispettare a pieno questo testo sono stati potenziati i Consiglieri di parità, cioè figure di nomina politica presenti su tutto il territorio nazionale per regioni, città metropolitane e province che hanno il compito di aiutare – gratuitamente e in forma anonima – chi ha subito una molestia. Ma i loro interventi rimangono circoscritti a pochi casi. “È ancora troppo basso il numero di chi denuncia – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocata Tatiana Biagioni, referente per le politiche di genere di Area pro labour – ci sono stati grandi progressi negli ultimi vent’anni ma manca ancora una cultura che aiuti a distinguere le molestie sul posto di lavoro, questo rende poco applicabili le norme che esistono e rallenta i meccanismi di prevenzione e tutela”.

Cosa si fa nelle aziende – Oltre che al consigliere di parità, oggi chi subisce una molestia sul posto di lavoro può rivolgersi al sindacato, ai centri antiviolenza o a una figura nominata internamente dall’azienda. Le imprese possono redigere codici di condotta contro le molestie e dotarsi di un consigliere informale interno ma sono pochissime quelle in grado di farlo. Nel 2016 le principali sigle sindacali (Cgil, Cisl e Uil) hanno firmato con Confindustria un accordo quadro di lotta agli abusi e ad esempio nel contratto dei metalmeccanici è previsto che si raccolgano in forma anonima le denunce con garanzie per le vittime. Tutto però rimane per lo più a discrezione delle imprese, che nelle piccole realtà non hanno strumenti effettivi di contrasto. “In molti casi nelle pmi chi funge da consigliere interno è il capo del personale o il capo dell’azienda, per esempio, e questo mette in serio pericolo chi si espone”, spiega Giorgia Fattinnanzi, referente Cgil per le politiche di genere. Per migliorare i percorsi di formazione è stata introdotta la certificazione della parità di genere, che può contrastare la violenza di genere migliorando l’equilibrio tra lavoratori e lavoratrici ma rimane appannaggio di poche grosse società ed è definita con punteggi poco precisi. “Bisogna capire che quello delle molestie è un tema di salute e sicurezza sul posto di lavoro e investire sulla formazione – dice Fattinnanzi – oggi è ancora molto difficile far valere le ragioni delle vittime”. Secondo gli operatori, una svolta sulla sensibilizzazione potrebbe venire dal riconoscimento delle molestie sul lavoro come reato, e tra fine novembre e inizio dicembre è previsto che un disegno di legge bipartisan inizi l’iter di discussione dalla Camera.

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