Sarebbe bello scrivere che l’escalation missilistica nel conflitto in Ucraina sia parte degli ultimi fuochi di una guerra sbagliata, che si poteva e si doveva evitare, ma non è possibile. Questa è una guerra anti-geopolitica, programmata al tavolino da un’amministrazione americana che ha spinto al limite la volontà di portare a termine il rilancio della supremazia americana nel mondo. Ha seguito il canovaccio di Dick Cheney, vice di Bush, che nel 2001 ne dettagliò le fasi nel Project for the New American Century, i cui cardini erano fiaccare il ruolo della Nazioni Unite e rimpiazzarlo con gli interessi americani. Allora si pensava che il teatro sarebbe stato l’Iraq, l’Afganistan e il Medio Oriente, ma oggi è chiaro che queste sono regioni limitrofe, il centro del ‘mondo americano’ è l’Europa.
L’elezione di Trump nel 2016 ha imposto una pausa, ma il ritorno dei democratici alla Casa Bianca ha riallacciato le fila di un programma che rischia di far deragliare il periodo di pace più lungo nella storia di questo continente, un continente intriso di guerre e sangue. Per chi, come questo giornale e me, ne ha denunciato ripetutamente i pericoli questa settimana è la conferma della sconfitta del buon senso e della ragione sulle ambizioni sfrenate di politici fuori tempo e di una stampa internazionale asservita al potere.
Perfino, in questo momento, si continua a ripetere una narrativa falsa: la corsa alla conquista di pochi kilometri di terreno per sedersi al tavolo delle trattative con vantaggi territoriali importanti; la concessione di missili a lunga gettata a Kiev per frenare l’avanzata russa; la cancellazione del debito dell’Ucraina per diminuire la scarsa popolarità di Zelensky in casa. La verità è che né l’amministrazione Biden né quella dei suoi alleati europei e tantomeno quella di Zelensky sono disposte ad accettare l’errore commesso. E così rilanciano, avvicinandoci pericolosamente al conflitto totale.
Non sappiamo cosa Trump abbia detto a Zelensky nella telefonata dopo la vittoria elettorale del primo; possiamo solo immaginare cosa Xi Jinping e Putin si sono detti giorni fa, ma è certo ne nelle prossime settimane la posta in gioco va ben oltre i territori al confine tra l’Ucraina e la Russia, la Crimea, l’entrata nella Nato e nell’Ue dell’Ucraina. La posta in gioco è la pace a casa nostra.
Interessi miliardari sono in ballo, dall’industria bellica ristrutturata con le armi intelligenti al ruolo egemonico degli Stati Uniti, con tutte le sue ramificazioni economiche e commerciali; tutte le grandi guerre sono germogliate in terreni simili. Quelle che non hanno avuto luogo si sono evitate perché grandi politici e una stampa veritiera hanno lavorato per smorzarle. Oggi mancano gli uni e gli altri.
Preoccupante e pericolosissimo è il momento scelto per questa escalation, l’interim tra un presidente americano in uscita e uno in attesa di entrare alla Casa Bianca. Sono queste le settimane in cui la politica americana è più fragile. Il protocollo vorrebbe che il presidente in uscita si limitasse all’amministrazione di routine, che non prendesse decisioni con ripercussioni sul futuro della politica interna ed estera. Biden, un navigatissimo politico, questo lo sa bene, ma ha scelto di ignorarlo. L’obiettivo è chiaro, forzare la mano al nuovo presidente e influenzarne le politiche. È paradossale che da questo braccio di ferro dipenda il nostro futuro, ma è così. La geopolitica, va ricordato, è una forza a sé stante che scaturisce dal confluire della politica e della geografia. In Ucraina si è voluto cambiare la seconda: come le vecchie guerre europee è una guerra territoriale, combattuta centimetro per centimetro. E come le prime, questo conflitto è andato avanti rifiutando le condizioni di forza dei contendenti. Quanto altro sangue deve scorrere per cambiare questo atteggiamento?
Noi italiani dovremmo essere ferratissimi in materia, il nostro è stato un paese con un sistema politico ‘bloccato’ per decenni dagli equilibri della Guerra fredda. Nel prezzo della pace tra i due blocchi c’era la nostra democrazia. Per quanto ad una grossa fetta della popolazione tutto ciò non ci sia piaciuto, ex post è stato un prezzo che valeva la pena pagare. La geopolitica è anche uno status quo che può essere alterato pacificamente con infinita lentezza, la storia deve fare il suo corso. Quando la si vuole forzare, si rischia di far straripare il fiume. Meglio aspettare che la naturale erosione dell’acqua cambi gli argini.
A chi legge voglio dire che mai siamo stati così vicini alla catastrofe e mai così prossimi alla salvezza. Nel secondo caso ci vuole un atto di grande umiltà, ammettere che ci siamo sbagliati, che la soluzione diplomatica a lungo periodo era quella giusta, l’unica percorribile. C’è solo da augurarsi che nelle prossime settimane entrambe le parti lo capiscano.