È successo alla scrivania, nell’ufficio del capo, in mensa, nei corsi di formazione, ma anche su un campo di calcio, mentre si parlava a voce e per messaggi. In luoghi come questi il 60% dei lavoratori o delle lavoratrici ha assistito ad abusi, una persona su cinque ha subito violenza in ambito professionale almeno una volta nella vita ma in un caso su quattro era una donna. Sono alcuni dei dati del primo rapporto sulle molestie sul posto di lavoro di Weworld, che ha realizzato con Ipsos un sondaggio su 1.100 lavoratori e lavoratrici tra i 20 e i 64 anni e ha raccolto 140 testimonianze anonime di donne e uomini vittime di abusi. Emerge che gli squilibri di potere e il precariato rendono le donne più esposte, che metà delle violenze nella sfera professionale ha come autore un capo uomo e che le vittime restano segnate da stress, ansia, burnout, calo dell’autostima, in alcuni casi arrivano a essere licenziate o a dare le dimissioni. A risentirne sono in prevalenza le lavoratrici perché spesso occupano posizioni professionali inferiori e non c’è un contesto che le sostenga. Anche per questo lo studio si chiama “Non staremo al nostro posto”. Lo spiega Martina Albini, coordinatrice del Centro studi di Weworld: “Le donne sono abituate a sentirsi dire che non devono controbattere, di stare ferme, buone ed educate ma se sei persone su dieci hanno assistito alle molestie vuol dire che tutti e tutte possiamo cambiare qualcosa”.
Le storie – Flavia (nome di fantasia), formatrice, lo ha vissuto a inizio carriera e se lo ricorda ancora: “Avevo 28 anni – racconta a Weworld – fummo ingaggiati per un coaching sportivo. Il referente dell’azienda partner mi chiese di andare in una delle stanze di lavoro da soli per provare un training autogeno che su un collega uomo aveva mostrato davanti a tutti. Cominciò a farmi un massaggio alle spalle per poi scendere e toccarmi il seno e la pancia fino al pube. Mi accorsi che stava violando i confini del mio corpo, mi sentii bloccata nella reazione che avrebbe meritato”. Nessuno si mosse per aiutarla. “Tutti i colleghi erano là, fuori dalla porta. Mentre il molestatore agiva, chiesero se avessimo finito, ma non aprirono”. Chiara, 30 anni, nel settore dell’elettronica e dell’informatica ha subito discriminazioni di genere prima ancora di iniziare un nuovo lavoro: “Durante il colloquio mi è stato detto: ‘Solitamente assumiamo uomini perché voi donne appena entrate con contratto indeterminato vi sposate e vi mettete in maternità’”. Un trattamento diverso dagli altri è stato riservato anche a Paola, 25 anni, a una selezione per un ente pubblico: “Se sarai assunta non vestirti come oggi, in azienda ci sono dei ragazzi, potresti attirare attenzioni e stimolarli”, portava un maglioncino con scollo a barca, una gonna da ufficio fino alle ginocchia e stivali alti. Quei vestiti hanno segnato anche Laura, 36 anni, operatrice del non profit: “Il capo mi diceva che non avrei ricevuto promozioni perché indossavo gonne aderenti: diceva che non realizzavo quanto fossi sexy e che nessuno mi avrebbe presa sul serio per il mio lavoro”. Anna, arbitra di calcio di 23 anni, gli insulti di genere li ha ricevuti dagli spalti: “Vai a giocare con le barbie”, le hanno urlato. Ma c’è anche chi le discriminazioni le ha respirate ogni giorno nell’aria. “Ricordo lo sguardo del responsabile ovunque andassi in ufficio, bagno, cucina – racconta Valentina, 24 anni, nel settore sociopolitico e non profit – Ora mi è chiaro ma prima faticavo a capire che erano molestie, pensavo fosse tutto nella mia testa”.
Reazioni e conseguenze – Secondo il campione Ipsos-Weworld le forme di violenza più diffuse sul luogo di lavoro sono la violenza verbale (nel 56% dei casi), il mobbing (53%), l’abuso di potere (37%). Dall’indagine emergono tre principali modi di reagire di fronte a un abuso legato all’ambiente professionale. C’è chi continua a lavorare senza raccontare cos’abbia vissuto, chi si confida o denuncia ma senza che l’azienda prenda in carico l’esposto, c’è chi trova effettivo supporto da parte dell’impresa, ma è una minoranza. La maggior parte delle vittime va avanti senza farne parola con nessuno, si colpevolizza per non aver saputo difendersi, continua a temere di non essere creduta o di subire ritorsioni in caso di denuncia. Si finisce così per sviluppare un malessere psicofisico che si trascina anche oltre l’orario lavorativo. Per Ipsos-Weworld, il 56% delle vittime ha iniziato a soffrire di stress e ansia dopo aver vissuto una violenza sul luogo di lavoro, una donna su tre ha sperimentato il burnout, una persona su quattro ha dato le dimissioni, un lavoratore su sette è stato licenziato. Nella maggior parte dei casi è una donna e si è ritrovata da sola. L’invito delle associazioni è a migliorare gli strumenti di prevenzione e contrasto alle molestie, dal codice di condotta alla certificazione di genere e a intervenire sul contesto. “Alla base di questi abusi ci sono dinamiche di prevaricazione – spiega Albini – bisogna costruire ambienti di lavoro sicuri e contrastare il precariato, che alimenta la violenza e intrappola chi assiste”.