di Ilaria Muggianu Scano

Sud Sardegna, San Sperate. È l’intelligenza delle amiche e colleghe di Francesca Deidda ad aver aperto la strada verso la verità sull’ultimo feroce femminicidio in Sardegna. Una storia di amicizia, quella delle giovani colleghe, che tentano il tutto per tutto nella speranza di salvare la vita a Francesca, mentre si configurava l’ennesimo tragico “lo sapevamo tutte”.

In queste ore, il 25 novembre, memoria della lotta contro la violenza sulle donne, l’ammissione di colpevolezza del marito della giovane consulente finanziaria. Si ripete la storia di Giulia Cecchettin, la cui tragica sorte ebbe enorme risonanza mediatica esattamente un anno fa. La confessione è quella di aver reso in brandelli il povero corpo di Francesca, di averla composta in parti riposte in seguito in un borsone occultato tra gli arbusti di un terreno rurale al di fuori del paese, poi di aver gettato in mare telefonino e martello, arma del delitto. Quel telefono cellulare che, di fatto, ha segnato la china discendente di un percorso che a tanti è sembrato cristallino sin dai primi istanti della sparizione di Francesca.

Sono le amiche di Francesca ad avere un ruolo determinante nell’inchiesta giudiziaria. Il reo confesso, secondo le ragazze, avrebbe avuto, già dai primi giorni della scomparsa di Francesca, il controllo del cellulare della donna, tanto da instillare in loro l’idea del messaggio trabocchetto, noto agli atti d’indagine, dopo l’invio di numerosi messaggi che, anche secondo la procura, sarebbero stati scritti da Sollai nel tentativo di tranquillizzare chi iniziava a preoccuparsi seriamente dell’assenza prolungata della moglie. Poi il messaggio della svolta inviato dalle amiche argute, insospettite dal fatto che Francesca non rispondesse più a voce e quando avveniva per messaggio il contenuto non fosse lineare, così cercano di vederci chiaro: “Ma lo sai che anche Giulia si è licenziata?”, “Davvero? Mi dispiace” risponde l’incauto destinatario, ignorante del fatto che in realtà non sia mai esistita alcuna collega che portasse questo nome.

La strada verso l’ammissione è lunga e il filo di speranza delle colleghe si sfilaccia ogni giorno di più, mentre cresce l’angoscia di non rivedere Francesca, e ora il proposito è quello di ottenere la non magra consolazione della verità. Così inizia un viaggio doloroso che dai primi giorni di maggio, momento della sparizione di Francesca, conduce prima al ritrovamento del corpo avvenuto a metà luglio, in una foresta vicino alla vecchia statale 125, con l’ausilio dei cani molecolari. In quel frangente il quarantenne, dopo un primo momento in cui si avvalse della facoltà di non rispondere, dichiarò che la moglie si fosse allontanata volontariamente, negando ogni responsabilità.

Oggi, dopo sei mesi dalla morte della donna e altrettanti di carcere per il camionista, arriva la confessione dal carcere di Uta, cittadina poco distante Cagliari: “Mia moglie l’ho ammazzata io. Abbiamo litigato, ho afferrato la prima cosa che mi è capitata fra le mani e l’ho colpita in testa”. Sollai crolla davanti al magistrato, pochi giorni dopo che la Cassazione rigetta la richiesta di scarcerazione. Gli inquirenti sono oggi impegnati nella ricerca del movente. Quasi impossibile sperare di mitigare la condanna.

La lotta inesausta delle amiche è stata mirabile, sino all’ultimo e oltre, quando Francesca era già stata uccisa mentre dormiva, come raccontano le cronache, completamente indifesa.

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