“Il nostro sguardo non deve essere sull’uomo violento maltrattante, e qualche volta anche assassino, ma su tutto un sistema che gli ha permesso” di commettere quelle azioni. Per Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste dove tiene corsi monografici sulla violenza di genere, in Italia cambiamenti per una maggiore consapevolezza ci sono stati. Ma l’assenza di dati affidabili, e l’incapacità di leggerli, impedisce di rilevare gli impatti favorevoli. Così gli indicatori della violenza continuano a essere sottovalutati. E la politica? “Ha una grossa responsabilità. Il modello machista così rappresentato dagli uomini e dalle donne al governo legittima una cultura che c’è già”.

Nel 2005 lei ha scritto il libro dal titolo “Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori”. Quasi vent’anni dopo, qualcosa è cambiato?
Sicuramente c’è un aumento di consapevolezza, molti cambiamenti legislativi, alcuni nelle pratiche delle forze dell’ordine. Ma non abbiamo dati affidabili e, dalla fine del secolo scorso, da quando si è veramente iniziato a riflettere sul tema, è difficile dire se le violenze sono aumentate o diminuite. Quindi cambiamenti sì, però evidenze di un impatto favorevole, scarse e contraddittorie. E poi naturalmente c’è il cosiddetto contrattacco che si concretizza in alcuni ambiti specifici: ci siamo dimenticati che la violenza contro le donne non è contingente, non è aggressività, non è il litigio nella coppia, è lo strumento principe per mantenere una situazione di dominazione storica degli uomini sulle donne. Quindi non possiamo immaginare che il cambiamento e il contrasto alla violenza maschile siano facili.

Ci fa un esempio?
Nell’ambito della violenza nella coppia, penso alla questione dell’affido dei figli dopo la separazione. Quando una donna lascia un uomo violento, c’è una concentrazione terribile intorno al possesso dei figli perché gli uomini vogliono mantenere il controllo attraverso di loro. E ancora oggi c’è un sistema di professionisti, in ambito psicologico e giuridico, che sostiene i diritti degli uomini violenti. Stiamo quasi tornando indietro. Perché finché le donne non si separavano questo tipo di violenza non era visibile. Oppure, per quello che riguarda diciamo la violenza sessuale fuori dalla coppia, c’è un mondo di pornografia che coinvolge milioni di uomini: si formano sui materiali che propugnano l’odio per le donne attraverso la sessualità. Io faccio finta di essere ottimista perché insegno e devo vedere anche delle cose positive che ci sono, però è molto difficile.

Quali dati mancano?
Purtroppo in Italia abbiamo scarsissime informazioni. Io sono consapevole che negli ultimi anni sono stati fatti degli sforzi: c’è un progetto del CNR che cerca di raccogliere le informazioni disponibili, la commissione Femminicidio ha fatto un grande lavoro per documentare quello che succede nei tribunali. Resta il fatto che abbiamo pochi dati affidabili. E c’è anche una incapacità di leggerli, a volte strumentale, altre frutto di ignoranza ma altrettanto grave. Penso a quello che ha detto Valditara sul fatto che la violenza sessuale è legata all’immigrazione. Ho sentito riprendere questa affermazione demenziale in maniera critica, ma dando comunque per scontato che i dati sulle denunce corrispondano ai dati sugli avvenimenti. E’ folle. E’ un livello di ignoranza inaccettabile. Ormai sappiamo tutti che non più del 10/15 per cento delle violenze sessuali vengono denunciate. Dopodiché è più facile denunciare l’immigrato sconosciuto che ti ha violentata di notte piuttosto che il marito o il datore di lavoro.

All’estero sono messi come noi sull’assenza di dati?
Siamo messi peggio. Poi diciamo che alcune cose si potrebbero fare da subito: non abbiamo bisogno di altri dati per cambiare il pregiudizio e credere alle donne. Basta seguire la convenzione di Istanbul. I dati ci servono primo per denunciare gli errori clamorosi che vengono fatti. Ma anche per documentare gli eventuali cambiamenti. E poi non basta avere delle distribuzioni di frequenza, bisogna metterci delle risorse scientifiche e anche economiche per fare le analisi.

Ha parlato di “contrattacco” nella battaglia contro la violenza sulle donne, cosa intende?
E’ una reazione a delle pratiche e azioni, al fatto che molte donne non sopportano più di essere molestate. O di essere maltrattate. Una grande giornalista femminista americana Susan Faludi parlava del contrattacco negli Stati Uniti già negli anni ’90. Cioè il sistema patriarcale ha delle radici potentissime. Moltissime persone, la maggior parte degli uomini, ma anche alcune donne, traggono vantaggio da questa struttura. Quindi non si lascia demolire o mettere in crisi così facilmente. E’ forte, contrariamente a quello che pensa il nostro ministro del Merito. E quindi a ogni avanzata delle donne, c’è un atteggiamento di resistenza e di attacco.

Valditara dice che in Italia il patriarcato è stato abolito con la riforma del diritto di famiglia, come replica?
La riscrittura del diritto di famiglia ha tenuto conto di un’evoluzione sociale ed è molto importante, ma è un elemento tra i tanti. Attenzione, il nostro sguardo non deve essere sull’uomo violento maltrattante, e anche qualche volta assassino, ma su tutto un sistema che gliel’ha permesso. Non è il comportamento omicida di un uomo che ci fa dire che il patriarcato esista ancora, ma il sistema che glielo ha consentito. I servizi socio-sanitari, le forze dell’ordine, i tribunali.

Tra le nuove generazioni c’è una maggiore sensibilità al tema?
E’ difficile generalizzare. Io tengo un corso all’università sulla violenza di genere e vedo tantissime studentesse e un po’ di studenti. Un pezzetto di persone giovani che sono interessate alla questione. Ma i dati dell’Istat dicono che la classe di età più con più pregiudizi, quelli che più spesso pensano che uno schiaffo ci sta se la tua fidanzata guarda un altro uomo, sono la classe 18-25 anni, quindi non è rassicurante.

Come se lo spiega?
Sono cresciuti ancora con l’idea della dominazione maschile e quando questa idea e la sua messa in pratica vengono contrastate la reazione è molto forte. E da una parte gli uomini si sentono ancora re o hanno questa aspettativa; dall’altra c’è una cultura demenziale. Penso ad esempio alla moda delle coppie di mettere lucchetti sui ponti: cioè l’idea che tu sei lì per sempre con la chiave. Andrebbero demoliti. Lo dico ai miei studenti e sento che ci sono risolini. Perché molti di loro l’hanno fatto senza rendersi conto.

A loro come insegna a individuare la violenza?
Dico di riconoscere tutti quei comportamenti di controllo che vengono letti come amore, passione e gelosia: stiamo solo noi, non vedere gli altri, non ascoltare quello che dicono le tue amiche, vestiti in un certo modo, voglio sempre sapere dove sei, cellulare sempre pronto, geolocalizzati. Sono prime indicazioni e bisognerebbe fare molta attenzione. Non dovrebbero essere accettati e se ne dovrebbe discuterne anche in classe.

Nell’ultimo anno abbiamo visto anche diversi casi di uomini che hanno ucciso donne anziane con la giustificazione del “l’ho fatto per lei”. Cosa ne pensa?
Ci sono dei casi molto chiari in cui le dinamiche sono quelle che ritroviamo tra le coppie più giovani. Lei non ne può più e se ne vuole andare, lui la uccide e nessuno si era accorto che c’era violenza. Poi c’è tutto il mondo dei cosiddetti suicidi per pietà e ci sono studi di ricercatrici che mostrano come l’uomo fosse sempre in una posizione di dominazione. Sono situazioni in cui le donne non scelgono di morire, lo sceglie lui. Probabilmente decenni fa alcuni di questi femminicidi passavano per incidenti e non venivano letti.

Dai giovani agli anziani, che responsabilità ha la politica nel sottovalutare la presa di coscienza della violenza contro le donne?
Rischio di dire cose anche banali, ma ha una responsabilità molto forte. Il modello machista così rappresentato dagli uomini e dalle donne al governo legittima una cultura che c’è già. Questi personaggi, e penso anche a Trump, non creano questa cultura. Però sicuramente danno degli strumenti di legittimazione.

Pensa che siano stati commessi errori nella battaglia per la tutela delle donne contro le violenze?
E’ una domanda troppo difficile. È giusto analizzare i propri errori, quando i risultati sono così scadenti. D’altronde la lotta contro il patriarcato è una lotta epocale, quindi dobbiamo aspettarci che sia lunga e dolorosa. Diciamo che la preoccupazione per il futuro mi incita a continuare a lavorare per l’educazione, come docente e divulgatrice, e a non mollare.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Reddito di libertà per le donne che denunciano le violenze: fondi bloccati per più di 10 mesi. “Ritardo macroscopico”. “E la maggior parte sono rimaste escluse”

next
Articolo Successivo

“Per le donne con disabilità è quattro volte più probabile subire violenza. Fenomeno sottostimato, servono leggi ad hoc”

next