La COP29 si è chiusa tra accuse, delusioni e un senso di profonda frustrazione per l’ennesimo fallimento nel fronteggiare la crisi climatica. Nonostante trent’anni di conferenze, promesse e obiettivi, la comunità internazionale sembra più lontana che mai dal raggiungere un accordo vincolante per fermare l’uso indiscriminato di combustibili fossili e affrontare le conseguenze della crisi eco-climatica.
Il fumo negli occhi dell’Unione europea
La COP29 di Baku avrebbe dovuto rappresentare per l’Unione Europea un momento di leadership globale sul clima. Invece, si è trasformata in una prova lampante di una strategia politica fatta di apparenze e vaghe promesse che nascondono un’azione insufficiente e frammentaria. Dietro l’immagine di un’Europa pioniera nella transizione ecologica e promotrice del Green Deal, si cela una realtà preoccupante: pochi passi concreti, un’incapacità di parlare con una voce chiara e un’inazione che rischia di aggravare la crisi climatica globale.
Le dichiarazioni del capo negoziatore europeo, Wopke Hoekstra, appaiono come “fumo negli occhi” per distrarre dalla mancanza di impegni chiari, come richiesto dai paesi in via di sviluppo e dagli esperti di clima. Se l’Unione Europea vuole davvero evitare di essere ricordata come il gigante dai piedi d’argilla della transizione ecologica, deve superare le manovre illusorie e assumersi la responsabilità di guidare il mondo verso un futuro sostenibile.
“Gli ambientalisti sono i veri nemici della transizione”
Le parole del Ministero dell’Ambiente riflettono l’approccio di governi sempre più irresponsabili, incapaci di sfidare i miopi interessi dei giganti fossili. La loro strategia è chiara: rinviare, rallentare, seminare dubbi. Anziché guidare il cambiamento, scelgono di mantenere lo status quo, intrappolando il pianeta in un modello energetico obsoleto e insostenibile.
Le lobby dei combustibili fossili, con la loro crescente influenza nelle conferenze internazionali sul clima, sono i veri protagonisti di questa paralisi. A Baku, come in altre Cop recenti, il risultato è stato un compromesso al ribasso, privo di impegni vincolanti per l’abbandono di gas, carbone e petrolio.
“La transizione climatica non è beneficenza, è un debito”
La questione finanziaria è stata uno dei principali punti di scontro. I Paesi del G7 chiedono investimenti di 1.300 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la crisi climatica. Tuttavia, i governi hanno messo sul tavolo appena 300 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2035 – un ritardo che condanna i paesi più vulnerabili, lasciandoli soli di fronte a catastrofi climatiche sempre più frequenti.
La ministra per l’Ambiente della Colombia, Susana Muhamad, ha inquadrato perfettamente la natura di questi finanziamenti: “La transizione climatica non è beneficenza, è un debito. Quei soldi non sono un’opzione, ma un obbligo morale e storico dei paesi ricchi.”
Un appello all’azione
Non possiamo restare inerti di fronte a questa catastrofe annunciata. Le ultime speranze per un futuro dignitoso non risiedono più nei palazzi del potere, ma nella mobilitazione collettiva. È il momento di scendere in piazza, di alzare la voce contro chi ci sta rubando il diritto a un pianeta vivibile. La transizione ecologica non è un lusso, ma una necessità. Non possiamo permettere che venga sacrificata sull’altare degli interessi economici di pochi. Ogni ritardo, ogni promessa non mantenuta, ogni attacco agli ambientalisti è un passo verso il collasso climatico.
Non c’è più tempo per aspettare: il cambiamento dipende da noi.