di Luca De Simone*

La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è più volte pronunciata sulla tematica dei ragionevoli accomodamenti, originariamente introdotta nell’ordinamento comunitario dalla direttiva 2000/78/CE, a cui è seguita, a livello nazionale, l’introduzione del comma 3-bis dell’art. 3 d.lgs. n. 216/2003 e, recentemente, la ridefinizione di nozione e procedure ad opera del d.lgs. n. 62/2024.

Attualmente, anche a seguito della richiamata novità legislativa, l’accomodamento ragionevole è definito come l’insieme di misure e adattamenti che possono essere richiesti alle amministrazioni, ai concessionari di pubblico servizio e ai privati, anche nella loro veste di datori di lavoro, per garantire i diritti della persona e del dipendente con disabilità quando a ciò non sia sufficiente il rispetto delle previsioni di legge.

Vi è da dire che la stessa Convenzione Onu del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, all’art. 2, definisce “discriminazione fondata sulla disabilità qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole” dove, per ‘accomodamento ragionevole’, intende ‘le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali’.

In ambito comunitario, poi, la citata direttiva 2000/78/CE, all’art. 5, intitolato ‘Soluzioni ragionevoli per i disabili’, statuisce: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. […]’.

È facilmente immaginabile la complessità del precipitato di conseguenze laddove il datore di lavoro si rifiuti di adottare tali provvedimenti. In particolare, in una tale ipotesi può il lavoratore rifiutare di adempiere ai propri obblighi contrattuali, arrivando a non rendere la prestazione?

Già con la pronuncia 12094 del 2018, la Suprema Corte si era espressa in merito all’applicazione del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., per il quale il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico, ove tale rifiuto non risulti contrario a buona fede, nel caso in cui il datore di lavoro, controparte contrattuale, si sia rifiutato per primo di eseguire la propria. In tale ipotesi, la Suprema Corte aveva considerato legittimo il rifiuto opposto dal lavoratore alla richiesta, avanzata dal datore, di svolgimento di compiti aggiuntivi, incompatibili con l’adibizione costante del prestatore ad un impegno lavorativo gravoso nonché ostativi alla cura degli interessi familiari, escludendosi, in tal caso, una condotta di insubordinazione in capo al dipendente.

Con la recentissima Ordinanza n. 30080 del 21 novembre scorso, la Cassazione giunge ad un approdo, se vogliamo, ancor più essenziale, affermando l’erroneità della decisione di una Corte territoriale (nello specifico, la Corte di Appello di Bologna) che ritiene ingiustificato il rifiuto opposto dal lavoratore con disabilità – malato oncologico in terapia salva vita, invalido civile al 100% e portatore di handicap in situazione di gravità – a fornire la prestazione; e questo a prescindere dalla valutazione di sussistenza della possibilità del datore di lavoro di assegnare il lavoratore ad una sede più vicino casa che gli avrebbe consentito di curarsi e, al contempo, di continuare a rendere la prestazione.

Questo sarebbe stato l’accomodamento ragionevole funzionale al miglior impiego del lavoratore disabile.

E se la Corte di Appello omette di procedere ad una tale valutazione, a giudizio della Cassazione tanto non è conforme allo statuto di speciale protezione che l’ordinamento interno e comunitario stabilisce per le persone con disabilità.

Dunque, nel comparare i rispettivi inadempimenti, il giudice deve valutare l’entità dell’inadempimento del datore di lavoro e verificare se il rifiuto opposto dal dipendente sia o meno contrario a buona fede, tenendo mente al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto ed alla concreta incidenza dell’inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di tutela della salute, di vita e familiari del lavoratore, come peraltro già osservato dalle precedenti pronunce Cass. n. 11408 del 2018 e Cass. n. 4404 del 2022.

E al fine di fugare qualsiasi dubbio interpretativo, la Cassazione chiosa precisando che il rifiuto di accomodamento ragionevole costituisce vero e proprio atto discriminatorio, come tale affetto da nullità.

* Avvocato giuslavorista, iscritto all’Ordine degli Avvocati presso il Tribunale di Nola dal 2005, si dedica tra l’altro al diritto dell’assistenza della previdenza sociale ed alla tutela dei diritti e delle condizioni di lavoro di soggetti disabili.

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