È possibile raccontare il disturbo bipolare? Una malattia tra le più invalidanti e allo stesso tempo diffuse della sfera psichica, che affligge più di un milione di persone in Italia (e forse la cifra è sottostimata) e che nei secoli ha accompagnato dolorosamente molti grandi personaggi, da Michelangelo a Van Gogh, Virginia Woolf, Ernest Hemingway, Winston Churchill, fino a Mel Gibson e Sting, può essere trattata in chiave di “romanzo terapeutico”?
La sfida è stata raccolta da un professionista esperto della mente umana come Rosario Sorrentino, neurologo e divulgatore con all’attivo diversi titoli di successo (come Panico, scritto con Cinzia Tani nel 2008). Esce in questi giorni nelle librerie Due di me (Aliberti editore): il racconto da vicino delle vicissitudini di Francesca, una giovane donna affetta appunto dal disturbo bipolare. Come accade per molti, anche la protagonista del libro, sulle prime, rifiuta con tutta sé stessa l’idea di soffrirne, escogitando una serie di strategie di difesa pur di sottrarsi a una diagnosi più volte confermata e da lei odiata.
Ma la verità delle cose si rivela a poco a poco. C’è una “Francesca A”, disinvolta, euforica e piena di energia, ma pericolosamente disinibita quando messa davanti ai tanti limiti e frustrazioni che il vivere comporta. E una “Francesca B”, depressa, spenta e priva di energie, che pensa più volte di mettere fine alla sua sofferenza divenuta atroce, insopportabile. La ricerca della guarigione passerà attraverso molte strade alternative: compresa quella della psicoanalisi freudiana, sulla cui efficacia, almeno in questi casi, il giudizio dell’autore è fortemente critico. Dopo aver dolorosamente superato i pregiudizi e i luoghi comuni, la protagonista giungerà a una consapevolezza preziosa: se si compiono i passi giusti, si può uscire anche dall’inferno della sofferenza mentale.
Un estratto dal libro in anteprima esclusiva
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto del libro in anteprima:
A volte, soprattutto quando si è sovrastati dalle emozioni più negative, i ricordi più belli si oppongono alla memoria. Volano via, lasciando però una scia di sensazioni che premono sulla ragione, quasi a ricordarle che qualcosa di speciale sia accaduta dentro di noi. Una traccia, un momento pieno di intensità che riesce a toglierci il fiato, il respiro, così da stordirci, riportandoci di prepotenza indietro nel tempo.
La vita andava vissuta fino in fondo perché poi ti rendi conto, all’improvviso, di quanto fosse fino a poco prima appesa a un filo. Voglia di ripartire, di rinascere: desideravo non farmi risucchiare dal vortice della mia sofferenza.
Non ero attrezzata, non avevo, perlomeno in quel momento, una propensione per vivere e affrontare altri conflitti, ma volevo almeno provare a salvare una delle due Francesca che aveva ormai una dimora fissa dentro di me.
Ma a quale delle due dovevo appoggiarmi per ricominciare? E a che prezzo, visto che ero profondamente legata a entrambe? Ognuna delle due rappresentava una parte di me, della mia personalità. Che si esprimeva a modo suo creando sconcerto e stupore innanzitutto a me stessa.
Cambiavo troppo facilmente idea sulle cose, a una velocità supersonica. E per me che volevo, dovevo uscire convinta dai tanti equivoci, ambiguità, questa non era certo una buona cosa per il mio equilibrio. La mia strada si preannunciava strettissima e piuttosto in salita, piena di incognite. Ma ero avida, affamata di vita e della mia rinascita che non poteva più attendere. Ero determinata a scoprire veramente chi fossi. Rifiutai, così, con tutta me stessa di continuare ad assumere i farmaci somministrati durante il mio lungo ricovero, per non parlare della comunità. Non volli più nemmeno sentirne parlare di quei medici interessati solo a reprimermi e a contenere i miei eccessi. Questo provocò l’immediata rottura coi miei genitori e subito dopo scattò il ricatto: vitto e alloggio e niente altro da loro. Fui costretta a cercarmi pure un lavoro che per fortuna trovai in una pizzeria lontano da casa.
Non avrei potuto fare altrimenti, la mia salute non poteva essere oggetto di uno scambio, un baratto che avveniva sulla mia pelle. Avevo un fottuto bisogno di parole, conforto, non di medicine. Non riuscivo a capire come mio padre si fosse arreso così facilmente, delegando la propria vita, le proprie emozioni, a delle pillole che, con la scusa di “stabilizzarlo”, lo rendevano di fatto più remissivo e ubbidiente.
Questa era la prova che eravamo diversi e che, poverino, non avesse tanto carattere. Altro che “bipolari seriali”, lui non aveva le palle, tutto qui.