Il nuovo mercato globale delle emissioni di carbonio prende forma tra luci e ombre. Dopo quasi dieci anni di discussioni, la Cop sul clima di Baku, in Azerbaigian, ha approvato le regole previste nell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi del 2015. Si prevedono meccanismi di cooperazione internazionale per raggiungere i target climatici e si ridisegna il sistema di scambi nel quale un credito di carbonio equivale a una tonnellata di CO2 ridotta, evitata o sequestrata dall’atmosfera. Il nuovo meccanismo può partire dal 2025 con nuovi standard da rispettare per guadagnare crediti di carbonio con progetti, come quelli di ri-forestazione o legati alle rinnovabili, attraverso cui i Paesi più ricchi e inquinanti acquistano “compensazioni” per la riduzione delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo.

I dubbi sul risultato – Ma sulle regole approvate e sulla procedura seguita a Baku non sono mancate le critiche, perché il pacchetto adottato nel primo giorno della Cop 29 non è frutto di negoziati politici tra i quasi duecento Paesi presenti. La presidenza azera ha presentato ai delegati un testo preparato da tecnici nei mesi scorsi. Ed è stata la prima volta per un regolamento così importante. Un precedente ritenuto rischioso per molti, anche se ha sbloccato una situazione in stallo da un decennio. Pure sui nuovi standard ci sono pareri contrastanti. Il testo stabilisce dei criteri a cui i progetti dovranno attenersi e chiarisce chi sia responsabile in caso di fallimento. Non è chiaro, però, se le nuove regole garantiranno l’effettiva corrispondenza tra i crediti emessi e il reale contributo alla mitigazione, né la tutela dei diritti umani così come promesso. Nelle battute finali della Cop, invece, è arrivata la decisione di istituire un registro Onu che terrà traccia di ciò che gli Stati si scambiano. L’Unione europea lo chiedeva da anni, ma era osteggiato dagli Usa.

Addio al Clean Development Mechanism – Il sistema di scambio dei crediti di carbonio fu introdotto dal Protocollo di Kyoto del 1997 con meccanismi “di conformità” per aiutare gli Stati a rispettare gli impegni sulle emissioni, che, con il tempo, hanno mostrato tutti i loro limiti. Il Clean Development Mechanism permette ai Paesi industrializzati di investire in quelli in via di sviluppo per poi scontare le quantità ridotte dal proprio impegno, e l’Emission Trading System consente ai Paesi che riescono a ridurre le emissioni di vendere i loro crediti a quelli meno virtuosi (che pagano il diritto a inquinare di più). Il Clean Development Mechanism ha poi gettato le basi per il Voluntary Carbon Market. Tuttora esistono sia il mercato regolamentato, come l’Ets europeo, sia il mercato volontario dove le aziende comprano crediti di carbonio per compensare le loro emissioni, senza un controllo centralizzato. Un accordo globale non si era mai raggiunto. L’articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi del 2015, però, disegnava un nuovo meccanismo e, di fatto, un nuovo mercato globale.

Il nuovo meccanismo di credito – Il funzionamento del Meccanismo di credito sotto l’Accordo di Parigi (Pacm) sarà regolato dall’Onu e da un organo di sorveglianza, il Supervisory body. Durante la sessione plenaria di apertura, la Cop ha approvato gli standard internazionali (che potranno essere rivisti) da rispettare nel nuovo mercato, dove un Paese può ricorrere alle emissioni risparmiate in un altro Stato attraverso gli Itmos, Internationally transferred mitigation outcomes (lo scambio di risultati di mitigazione), che corrispondono ai carbon credits del mercato libero. I progetti che generano crediti dovranno essere approvati e registrati dal Supervisory body. Questo nuovo mercato dovrà sostituire il vecchio Clean Development Mechanism e, dopo anni di deregolamentazione, influire anche sul Voluntary Carbon Market. Nel corso degli anni, infatti, mancanza di regole e scarsa trasparenza hanno portato a diversi scandali, come quello scoppiato dopo l’inchiesta condotta dal quotidiano britannico The Guardian sull’effettiva utilità di compensazioni di carbonio forestali approvate da Verra, principale fornitore mondiale di crediti. Di fatto, nel 2023 il valore di mercato dei crediti è calato del 61% rispetto al 2022. La speranza è che la gestione dell’Onu e una maggiore integrazione con le metodologie adottate a Baku garantisca più affidabilità anche al mercato volontario.

Le regole adottate a Baku – Il testo introduce standard minimi per i nuovi crediti e regole per evitare il doppio conteggio, in entrambi i Paesi che cooperano, delle emissioni di carbonio ridotte. I risultati dei progetti di rimozione del carbonio dovranno essere misurabili e verificabili e si prevede una valutazione ex ante dei progetti sulla base degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Sulla carta, per guadagnare crediti i progetti presentati dovrebbero assicurare maggior tutela dei diritti umani e dell’ambiente, per esempio attraverso il rispetto del principio “do no harm” (non devono creare danni collaterali all’ambiente o al clima) e una valutazione dei rischi in 11 ambiti diversi. Per le rimozioni di carbonio dall’atmosfera, “i nuovi standard chiariscono anche cosa si deve fare e di chi è la responsabilità in caso un progetto fallisca” spiega a ilfattoquotidiano.it Jacopo Bencini, ricercatore al Carbon Market hub dell’Istituto universitario europeo di Firenze e presidente dell’Italian Climate Network. “Cosa succede se un incendio devasta un’area oggetto di riforestazione? Di chi è la colpa? Il testo chiarisce che la responsabilità è interamente dello sviluppatore del progetto, quindi dell’azienda” sottolinea Bencini. “Le nuove regole”, aggiunge, “genereranno anche un po’ di finanza per il clima, perché sono previsti dei versamenti obbligatori che gli Stati devono fare su ogni transazione, un 5% che va a finanziare azioni di adattamento”.

Le critiche e la polemica sulla procedura – Secondo diversi osservatori, però, gli standard non basteranno a evitare nuovi scandali e a far emergere tempestivamente le incoerenze. “I progetti sulle rimozioni di Co2 che possono ottenere crediti”, fa notare Kelly Stone di ActionAid Usa, “sono definiti in modo così ampio da includere tutto”, mentre manca uno strumento condiviso per valutare il rischio che il carbonio rimosso o stoccato ritorni in atmosfera prima del previsto, né sono previste sanzioni in caso l’efficacia dichiarata non corrisponda a quella effettiva. Altre perplessità ha suscitato l’inclusione dei progetti del programma REDD+ sulla deforestazione, al centro di inchieste e critiche. Climate Action Network, inoltre, segnala che il testo adottato a Baku non vieta i progetti che violino apertamente i diritti umani delle comunità coinvolte. Anche la procedura adottata è stata motivo di aspre critiche. Per Isa Mulder di Carbon Market Watch l’accordo raggiunto alla Cop29 “crea un pessimo precedente per la trasparenza e la corretta governance”. “Quest’anno è emerso con forza il tema dell’opportunità che duecento Paesi, in plenaria, potessero prendere decisioni estremamente tecniche”, spiega Bencini. Per questo, su delega della Cop e in estensione del proprio mandato, a ottobre scorso il Supervisory Body aveva adottato queste metodologie, che la Cop 28 di Dubai non era riuscita ad approvare. “Si è certamente creato un precedente”, aggiunge, “ma, nonostante un iniziale scetticismo, credo che i delegati abbiano capito l’urgenza di decidere dopo nove anni di discussioni”.

Il nuovo registro, compromesso tra Ue e Usa – L’articolo 6.2 dell’Accordo di Parigi disciplinava, invece, gli accordi bilaterali e multilaterali tra Stati, come nel caso di una nazione che finanzia un progetto per ridurre le emissioni in un’altra, intestandosi poi le emissioni risparmiate o vendendole a un altro Stato. A dicembre 2023, la Svizzera e la Thailandia sono stati i primi Paesi al mondo a utilizzare questo approccio cooperativo. Sia per il mercato controllato dall’Onu (articolo 6.4), sia per gli accordi tra Stati (6.2), per definizione meno trasparenti, mancava un registro che tenesse traccia di ciò che gli Stati si scambiano. La decisione è arrivata alla fine della Cop. “Dopo il bollino di garanzia messo dall’Onu, con l’istituzione del registro si guadagnerà in trasparenza” commenta Bencini, spiegando che lo strumento “non è costruito da zero dall’Onu, ma prende atto dei registri nazionali esistenti”. Sia nel mercato volontario, sia nei sistemi nazionali, infatti, esistono registri che raccolgono dati chiave su progetti e crediti scambiati. “L’Ue chiedeva da anni un registro Onu unico e vincolante per i crediti emessi e scambiati”, racconta l’esperto, “ma gli Usa si sono sempre opposti, preferendo la deregolamentazione”. La decisione finale è un compromesso: “Il registro Onu si farà (non è ancora chiaro quando, ndr), ma sarà “soft“, riportando i dati dei registri esistenti con una clausola di flessibilità”. Se un Paese molto in difficoltà non riesce a mettere in piedi un proprio registro, allora potrà chiedere un supporto alle Nazioni Unite, facendo registrare le proprie transazioni in quello dell’Onu.

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