Pubblichiamo integralmente l’intervento che Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, terrà il 28 novembre a Milano in occasione della chiusura di About a City, il festival in corso in questi giorni alla Fondazione Feltrinelli. “Diversi, eppure insieme: riscoprirci cittadini” è il nome dato al panel a cui parteciperà Montanari dalle 18.230 alle 20 […]
Pubblichiamo integralmente l’intervento che Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, terrà il 28 novembre a Milano in occasione della chiusura di About a City, il festival in corso in questi giorni alla Fondazione Feltrinelli. “Diversi, eppure insieme: riscoprirci cittadini” è il nome dato al panel a cui parteciperà Montanari dalle 18.230 alle 20 insieme a Federica Verona, Eraldo Affinati, Yuri Kazepov e Fatima Ouassak: un’occasione per parlare di città, del loro presente ma soprattutto del loro futuro.
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Buonasera a tutte e a tutti, e grazie alla Fondazione Feltrinelli per questa occasione di riflessione comune.
La prossima settimana tornerò qua, a Milano, ma per andare a Palazzo di Giustizia. Lo farò come testimone della difesa, in un processo a carico di alcuni giovani militanti di Ultima generazione, ‘colpevoli’ di aver imbrattato con vernice lavabile il basamento del celebre ‘dito medio’ di Maurizio Cattelan. Lo hanno fatto per ricordarci che il tempo è scaduto, e che il disastro climatico ci travolgerà inesorabilmente se non invertiamo, subito, la rotta. E cioè che le nostre città non hanno un problema di decoro urbano: hanno un problema di sopravvivenza.
Con mia grande sorpresa, il Comune di Milano si è costituito parte civile contro di loro, considerando ‘nemici’ queste persone, cui invece io sono profondamente grato. Nella costituzione di parte civile, si legge: che «la pulizia degli imbrattamenti, di cui i graffiti rappresentano una delle forme, ha assunto particolare rilievo nell’ambito dell’obiettivo di promuovere l’immagine di Milano nel mondo, tramite uno specifico piano di Marketing Territoriale». E vi si dice, poi, che in quest’ottica assume una notevole importanza l’«attività di prevenzione degli imbrattamenti e repressione dei reati». Nella mia città, Firenze, qualche anno fa furono disposti dei ‘daspo urbani’ (applicando i decreti Minniti-Orlando) che definivano ‘zona rossa’ il centro monumentale: la zona rossa dalla quale tenere lontane persone denunciate (non condannate, ma denunciate) per spaccio, reati contro la persona, danneggiamento e commercio abusivo. Allora, scrissi che la città della rendita (quella Firenze gentrificata da cui vengono espulsi i residenti a favore di airbnb) è l’altra faccia della città della repressione contro i poveri cristi, che non vogliamo più nemmeno vedere nella zona rossa dello storytelling del Rinascimento. E mi chiedevo se sarebbe mai giunta una ordinanza per censurare gli affreschi di Masaccio alla Cappella Brancacci, dove i mendicanti e i marginali hanno una dignità che la politica italiana non si riconosce da troppo tempo.
Ho scelto due città governate non dalla destra di matrice fascista che governa l’Italia, ma dal centrosinistra. Per suggerire che abbiamo urgente bisogno di riflessioni come quella di oggi. Davvero il problema delle nostre città sono le scritte sui muri (molte delle quali sono molto più belle, e più umane, dei muri stessi), o la presenza delle persone marginali? Davvero è questo il decoro urbano? Dove sta, davvero, la bellezza delle nostre città? E questa bellezza è messa a rischio, o addirittura è cancellata dalla conflittualità sociale, e dalla sua rappresentazione sui muri? Se intervistassimo i nostri concittadini, per strada, non molti assocerebbero all’espressione “patrimonio culturale”, la parola “conflitto”. Ma sbaglierebbero. Nelle sue altissime riflessioni intorno al Concetto di storia, uscite postume nel 1942, Walter Benjamin scrive: «Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come sempre si è usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale». Per quanto possa non piacerci, è difficile negare questa affermazione. Così come è difficile negare quella di Furio Jesi sul fatto che «la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era piú potente e piú ricco, o piú esattamente non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era piú debole e piú povero. È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano. Una cultura non consiste certamente solo delle incrostazioni del linguaggio che in essa ricorre; ma la sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni è per lo meno sospetta, dal momento che una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali».
In questa prospettiva, una alternativa possibile è l’accettazione passiva di città storiche in cui sono ben iscritti, e leggibili, rapporti di forza e connotati ideologici assai remoti da quelli del nostro progetto democratico. È ciò che accade normalmente, attraverso una estetizzazione globale del patrimonio monumentale: ridotto alla categoria del bello. Una bellezza non significante. Ma anche se scegliamo questa strada, dobbiamo essere coscienti che la ‘pedagogia delle cose’ e degli spazi, agirà comunque. Come ha scritto Pier Paolo Pasolini nel suo incompiuto trattatello pedagogico dedicato a un Gennariello, «l’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale — rende quel ragazzo corporeamente quello che è, e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo (almeno nella mia esperienza storica). Perché egli e stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo». E, aggiungeva, «trattandosi di un discorso pedagogico inarticolato, fisso, incontrovertibile, esso non poteva essere, come si dice oggi, che autoritario e repressivo».
Così, quando oggi una ragazza o un ragazzo scrivono o dipingono un muro (magari anche un muro monumentale del centro storico), essi non fanno altro che ribellarsi – per quanto possono, e riescono – a questo muto discorso pedagogico della città in cui crescono, questo discorso così spesso «autoritario e repressivo». E io non credo che la risposta giusta, quella più carica di futuro, sia un’ulteriore repressione: processi e zone rosse sono parte del problema, non della soluzione. La soluzione è, al contrario, incrinare il discorso pedagogico autoritario della città delle pietre e del cemento, attraverso la dimensione del conflitto: e in primo luogo di un conflitto semantico. Nel caso del patrimonio culturale, della città storica, questo sembra oggi difficilmente anche solo pensabile. Ma per secoli, invece, è successo proprio questo.
Mi ha raccontato mio padre che, accompagnando un giorno suo nonno Nullo in giro per Firenze, di fronte alla colonna di marmo che, in piazza del Duomo, reca la figura in bronzo di un albero (per ricordare il miracolo gentile del 26 gennaio 429, quando la bara del santo vescovo Zanobi avrebbe urtato un olmo secco, facendolo ridiventare di colpo vivo e verde), sentì compiacersi in modo speciale quel vecchio romagnolo socialista, battezzato col cognome di un eroe garibaldino, convinto di trovarsi al cospetto della memoria di un ‘albero della libertà’ rivoluzionario: presenza frequente nelle città della sua terra, ma non in quelle della mia. Così, senza saperlo, il mio bisnonno risemantizzava un segno clericalissimo del Medioevo magico, capovolgendolo in un simbolo della stagione più laica che mai si fosse vista in Italia. Sbagliava, naturalmente, il nonno Nullo, ma al tempo stesso faceva ciò che si è sempre fatto, di generazione in generazione: agiva un conflitto, per conservare vivo il patrimonio culturale ridandogli un significato. Senza volerlo, anzi senza nemmeno rendersene conto, lo manipolava per appropriarsene: per sentirlo suo.
Già. Di chi è il patrimonio culturale? Degli avi che lo creano, e ad esso impongono un senso, o dei discendenti che lo ereditano, e cambiano quel senso? Dei ricchi che l’hanno in gran parte costruito, o dei poveri, ai quali era ostentato, e dai quali, alla fin fine, era finanziato? Dei conquistatori che, di epoca in epoca, l’hanno risemantizzato, o dei conquistati, che ne furono espropriati? Dei vecchi regimi, o dei nuovi? Dei padroni o dei sudditi, del clero o del popolo? Dei potenti o dei dissidenti? Il discorso sul patrimonio culturale è, da sempre e anche oggi, il campo in cui ha luogo il conflitto per deciderlo, di volta in volta. In una società come la nostra – che espelle il conflitto delle idee, e nega anche solo che esista quello degli interessi di classe, pur praticandolo ogni giorno dall’alto contro il basso – diffusamente si crede che quel discorso sia invece pacificatore, meramente estetico: è un errore macroscopico, perché il patrimonio è per eccellenza luogo, e palestra, di conflitto. E proprio per questo è così importante per la democrazia: perché offre una educazione sentimentale al conflitto, e insegna l’arte di ricomporlo in equilibri diversi, più avanzati.
Uno spazio culturale, spesso coincidente con lo spazio pubblico urbano, in cui esercitare il conflitto, incruento, per l’egemonia dei significati. Fin dalle origini della nostra tradizione, dunque, il patrimonio culturale è luogo di conflitto: di un conflitto non sanguinoso, ma a tratti durissimo, e in certi casi fatale per il patrimonio stesso. Un conflitto ancora oggi necessario: purché impariamo ad agirlo fino in fondo senza distruggerci a vicenda. Quando ci riusciamo, esso può guidare il discorso politico nella sua più ampia complessità. Pensiamo alla necessità di ‘decolonizzare’ le nostre società, di costruire gerarchie che non siano fondate sul dominio (quello patriarcale dei maschi, dei bianchi, dei cristiani…), ma sulla compresenza dei significati. Per questo, il dibattito sulle restituzioni e sulle appartenenze è capace di portarci nel nocciolo più profondo delle nostre identità non attraverso la guerra, ma attraverso la pace. E pensiamo, più in generale, alla stessa parola ‘patrimonio’: così strettamente, e ideologicamente, connessa a ‘patria’ nella discendenza dal ‘padre. Una parola che può continuare ad essere usata solo a patto di sottoporne il significato ad una revisione profonda che la sottragga alla logica di un dominio maschile ben lungi dall’essere messo davvero in discussione.
Del resto, l’alterità del patrimonio culturale, la sua diversità dal resto dello spazio e del tempo che oggi viviamo, rappresenta in se stessa un conflitto. Il patrimonio è, infatti, ontologicamente irriducibile alla logica del pensiero unico: anzi, è una polemica contro lo stato delle cose presenti, in quanto testimonianza viva della possibilità che esso muti. Il conflitto che, di generazione in generazione, risemantizza il patrimonio dimostra la possibilità, anzi la necessità, di lottare per dare alle cose un significato diverso da quello imposto dai rapporti di forza del qui e ora. Chi pensa che il patrimonio culturale sia faccenda per ricchi sfaccendati e dame della carità, eruditi polverosi o esteti in fuga dal mondo si trova presto a fare i conti con pensieri e opere per loro natura eversivi: felicemente eversivi, in un tempo che teorizza l’assenza di alternative come garanzia di perpetuazione dell’ingiustizia. Per questo, in un mondo che non sembra avere alternative tra una pace intesa come dominio armato di alcuni su altri, e una ‘terza guerra mondiale a pezzi’, il discorso sul patrimonio culturale può aiutarci a recuperare le ragioni di una convivenza universale fondata sulla giustizia e sulla condivisione, permettendoci di ridefinire il concetto stesso di identità.
Questo processo avviene, o non avviene, nelle città. E deve investire la didattica del patrimonio nelle scuole, plasmare le politiche culturali cittadine, sostenere le politiche sociali. Il conflitto non va negato, e rimosso, ma agito: permettendo a tutte e tutti, e a tutte le generazioni, di appropriarsi del patrimonio attraverso una sua libera risemantizzazione. È urgente, e insieme difficile, risemantizzare quella parte speciale dello spazio pubblico che chiamiamo patrimonio culturale, e questa necessità non riguarda solo l’eredità del Novecento, ma appunto tutto il patrimonio, che è il luogo della «compresenza dei tempi» (Carlo Levi). La patrimonializzazione (cioè la ‘decisione’ su cosa sia patrimonio e cosa no) è sempre avvenuta attraverso conflitti e negoziazioni, e per sua stessa natura non approda mai a un risultato definitivo: perché essa non attiene alle ‘cose’, in sé (apparentemente) immutabili, ma al rapporto tra quelle cose e i viventi ora, e le generazioni passate (e quelle future).
A differenza dei monumenti otto-novecenteschi che popolano gli spazi pubblici (quelli che Alois Riegl chiama «monumenti intenzionali», cioè nati con l’intenzione di renderli immediatamente tali, e che non sono quasi mai opere d’arte – 1), i monumenti storico-artistici sono vere opere d’arte, non di rado opere capitali, che non possono essere modificati nella forma e nella sostanza senza di fatto perderli. Installazioni artistiche moderne, cartelli, luci o segnali sonori non funzionano per risemantizzare (se non, eccezionalmente, per brevissimi periodi, e a condizioni molto precise) statue, pitture, architetture, o in generale ‘cose’, antiche, medioevali, rinascimentali, barocche o neoclassiche: e dunque tutto (o quasi) è affidato al racconto dell’opera, cioè alle didascalie, alle spiegazioni, alle narrazioni, alla didattica e alla divulgazione in tutte le loro forme. Al nostro discorso pubblico collettivo sul patrimonio. A tutto quanto, cioè, possa consentire a questi ‘classici’ figurativi di continuare a dialogare con noi.
Il nostro discorso relativo allo spazio sfiora qui un’altra, e ben distinta, questione. Da alcuni anni, specialmente negli Stati Uniti, una sorta di crisi di rigetto colpisce altri ‘classici’, quelli della letteratura occidentale, visti esattamente (per riprendere la terribile definizione di Benjamin) come il bottino dei vincitori di ieri e di oggi che calpestano chi oggi giace a terra (neri, donne, poveri…). Probabilmente la risposta più carica di futuro a questo fenomeno di contestazione, motivato e tuttavia potenzialmente devastante, non è troppo remota da quella qui proposta per i monumenti figurativi delle piazze e dei musei: non espungere quei testi altissimi e insostituibili da un canone umano condiviso, ma leggerli, commentarli (insomma parlarli) in modo che diventi evidente che in quel bottino ci sono anche gli anticorpi culturali necessari per destrutturarlo, contestarlo, redistribuirlo. E che, d’altra parte, gli anticorpi dobbiamo essere noi vivi oggi: noi che li leggiamo e li collochiamo in uno spazio di senso nuovo, ridefinito partendo da un punto di vista profondamente ripensato. Una nuova generazione di studiosi, non più solo bianchi e non più quasi solo maschi, può estrarre da quel bottino «cose antiche e cose nuove» (per usare le parole di un grande classico: il Vangelo): e le cose nuove, che prima forse non riuscivamo a vedere, possono diventare a loro volta l’eredità di una generazione che non scelga il suicidio della cancellazione, né il silenzio della complicità, ma la via di una nuova interpretazione di quei classici che costruiscono la nostra umanità, sia in letteratura che in arte.
Dobbiamo essere consapevoli che è molto meglio una città ‘imbrattata’ (io direi una città colorata dal basso) che una città autoritaria. Se prendiamo atto del conflitto (che è innanzitutto un conflitto sociale, e politico), non sarà possibile, né desiderabile, avere un ordine stabilito condiviso, ma converrà accettare la presenza di segni contraddittori, in una città aperta. Così, per esempio, e chiudo su Milano dalla quale sono partito dovremmo accettare che la statua di Indro Montanelli sia un segno contestato. Per alcuni Montanelli è stato un grande giornalista, e un simbolo dell’Italia e della Milano borghese e conservatrice: un uomo d’ordine. Per altri (e per altre; e anche per me), Montanelli è stato l’esponente di un pensiero colonialista, maschilista, a tratti francamente razzista (a parte i trascorsi giovanili e africani di epoca fascista, ancora negli anni sessanta, di fronte alle lotte di Martin Luther King, egli considerava biologicamente inaccettabile il matrimonio tra bianchi e neri…). La sua statua è stata collocata nel 2006, per decisione dello stesso sindaco che negò al Gay Pride il patrocinio del Comune, che aveva dedicato una piazzetta al fondatore dell’Opus Dei, e quindi un parco a quello di Comunione e Liberazione. Questa è senza dubbio una Milano. Ma esiste anche la Milano delle donne di Non una di meno e dei ragazzi che a intervalli regolari coprono quella statua di vernice. È questo conflitto di segni, pacifico ma esplicito, che dobbiamo accettare: se vogliamo che le nostre città restino davvero luoghi di libertà e di incubazione di futuro, e non belle tombe di una società morta.
Grazie!
1 A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi [1903], a cura di S. Scarrocchia, Abscondita, Milano 2011.