È Padova la provincia italiana in cui la sanità pubblica è gestita meglio. Almeno secondo il monitoraggio dell’Agenas, l’Agenzia del ministero della Salute per i servizi sanitari regionali, che colloca ai primi posti tanto l’Azienda Ospedale-Università della città del Santo quanto l’Aulss 6 Euganea. Il 28 novembre, al Forum sul Risk Management in sanità di […]
È Padova la provincia italiana in cui la sanità pubblica è gestita meglio. Almeno secondo il monitoraggio dell’Agenas, l’Agenzia del ministero della Salute per i servizi sanitari regionali, che colloca ai primi posti tanto l’Azienda Ospedale-Università della città del Santo quanto l’Aulss 6 Euganea. Il 28 novembre, al Forum sul Risk Management in sanità di Arezzo, sono stati presentati i dati aggiornati al 2023: sono 13 su 51 (il 24 per cento) gli ospedali con livelli di performance definiti “bassi”, grosso modo gli stessi del 2021 che è l’ultimo anno per cui erano stati pubblicati i dati; aumentano però, da 9 a 13, quelli con livelli “alti”, che tuttavia restano lontani dai 17 su 53 del 2019 pre-Covid; gli altri 25 sono a livello intermedio.
Al primo posto c’è il Santa Croce e Carle di Cuneo, poi l’ospedale universitario di Padova, a sorpresa il Policlinico Universitario di Tor Vergata a Roma, il Sant’Andrea di Roma che è un altro ospedale universitario legato alla Sapienza e il Policlinico San Matteo di Pavia che pure è legato al prestigioso ateneo locale. Non è banale: gli ospedali universitari, tra molte altre cose, dispongono di maggiori risorse, a partire dai medici specializzandi che coprono diversi buchi di organico. Infatti c’erano ospedali universitari anche ai primi posti del Programma nazionale esiti (Pne) presentato un mese fa sempre da Agenas: l’Azienda ospedaliero universitaria di Torrette di Ancona e il Careggi di Firenze, oltre all’Humanitas di Rozzano (Milano) che però è privato (convenzionato). Lì però si valutano molto capillarmente i risultati dell’attività clinica, qui soprattutto la gestione.
Il monitoraggio, condotto per la seconda volta con il “modello di valutazione multidimensionale della performance manageriale”, prende in considerazione per gli ospedali 27 indicatori in 4 aree (accessibilità che vuol dire tempi di attesa per gli interventi anche oncologici e al pronto soccorso, processi organizzativi, sostenibilità economico-patrimoniale e investimenti) e 10 sub-aree. Chi vuole può agevolmente consultare i dati azienda per azienda.
L’analisi è estesa alle aziende sanitarie territoriali, che naturalmente gestiscono anche ospedali ma soprattutto medici e pediatri di famiglia, prevenzione, ambulatori. Su 110 ce ne sono 27 classificate a livello di performance “alto”, 53 “medio” e 30 “basso”. Anche qui siamo al 25 per cento: una su quattro non ce la fa. Le aziende migliori sono tutte al Nord, ben tre delle prime cinque in Veneto: nell’ordine l’Ulss 8 Berica (Vicenza), poi l’Ats di Bergamo, l’Ulss 6 Euganea (Padova), l’Ulss 1 Dolomiti (Belluno) e l’Azienda Usl di Bologna. Le peggiori sono tutte al Sud: l’Asl Napoli 1 Centro, l’Asp di Crotone, l’Asl di Matera, l’Asp di Enna e l’Asp di Vibo Valentia.
Per le aziende territoriali gli indicatori sono 34, classificati in 6 aree (prevenzione, distrettuale, ospedaliera, sostenibilità economica-patrimoniale, outcome) e 12 sub-aree. Per esempio Agenas ha misurato la degenza media nei reparti di medicina interna e geriatria, l’indice di fuga per prestazioni di media e bassa complessità, il rispetto dei tempi di attesa per interventi come colecistectomia e protesi all’anca, al ginocchio e alla spalla. Al Nord va male quasi tutto il Piemonte, bene quasi tutta la Lombardia come il Veneto, l’Emilia-Romagna e la Toscana ma anche la Campania e buona parte della Sicilia, mentre nel Lazio per metà è un disastro.
Altri indicatori però restituiscono la tradizionale frattura Nord/Sud: la mappa della mortalità prevenibile (dovuta cioè politiche sanitarie, stili di vita, status socio-economico) o trattabile (allo stato delle conoscenze mediche), chiamata outcome, vede quasi tutte zone arancioni (male) quando non rosse (molto male) dal Lazio in giù, Sicilia compresa, con valori medi più accettabili in Puglia, in Basilicata e nelle province di Avellino, Catanzaro e Ragusa. Naturalmente sul medio lungo periodo questi dati migliorano, però le regioni meridionali restano saldamente al di sotto della media nazionale, come confermato anche per il 2023 dai dati Istat sull’aspettativa di vita (dagli 84,6 anni di Trento agli 81,4 della Campania) e dal divario che addirittura cresce in termini di aspettativa in buona salute (dai 66,5 anni di Bolzano ai 52,8 della Basilicata).
È sostanzialmente sovrapponibile la cartina Agenas della Prevenzione, ricavata dalle percentuali di adesione alle campagne di screening per i tumori della mammella, della cervice e del colon: vanno un po’ meglio il Lazio e la provincia de L’Aquila, ma insomma siamo lì. La distanza tra Nord e sud si vede anche in tema di sostenibilità economico-patrimoniale, dove tra gli indicatori troviamo i costi pro capite e la tempestività dei pagamenti. Non si vedono invece particolari differenze tra Nord e Sud nella mappa degli investimenti delle aziende sanitarie su tecnologie e patrimonio: specie per le aziende territoriali i livelli sono mediamente bassi in tutta Italia. Quando si dice un Paese senza futuro.