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A due giorni dal cessate il fuoco Israele colpisce ancora il Libano: quando l’impunità è regola

A meno di due giorni dall’inizio del cessate il fuoco, Israele ha colpito nuovamente il sud del Libano con un attacco aereo, dimostrando ancora una volta come possa agire senza temere conseguenze. Il pretesto, questa volta, era un presunto deposito di razzi di Hezbollah.

È l’ennesima violazione del diritto internazionale da parte di un Paese che gode di protezione globale, alimentata anche dal sostegno di nazioni come la nostra, che è la terza fornitrice mondiale di armi in questa guerra genocida. Questo bombardamento, il primo dopo l’annuncio della tregua, non è solo un episodio isolato, ma il simbolo di una strategia consolidata: Israele ignora gli accordi e li usa piuttosto come strumenti per rafforzare il suo controllo.

Un cessate il fuoco che alimenta insicurezze

Il cessate il fuoco doveva porre fine a 14 mesi di devastazione in Libano, imponendo un ritiro graduale delle forze israeliane dai territori occupati e il dispiegamento di truppe libanesi e forze di pace delle Nazioni Unite. Tuttavia, già il primo giorno di tregua è stato segnato da episodi che hanno suscitato paure e sconforto. L’esercito israeliano ha aperto il fuoco contro civili libanesi che tentavano di tornare nelle loro abitazioni, accusandoli di violare i termini dell’accordo. Due persone sono rimaste ferite, secondo l’agenzia nazionale libanese.

Non è tutto: Israele ha imposto restrizioni rigide su 62 villaggi nel sud del Libano, un’area di circa 500 chilometri quadrati. Tra questi, almeno 20 villaggi non erano stati coinvolti nell’ultima escalation militare né avevano ospitato truppe israeliane. È una tattica già vista, mirata a creare insicurezza e bloccare ogni tentativo di ritorno alla normalità. Perfino i funerali non sono stati risparmiati: nel villaggio meridionale di Al-Khiyam, l’artiglieria israeliana ha sparato durante il funerale di un residente.

Un’architettura dell’impunità

Il sistema di impunità che protegge Israele è radicato profondamente. Come evidenziato da Gideon Levy sul Middle East Eye, Israele ha sistematicamente delegittimato le istituzioni internazionali ogniqualvolta queste abbiano criticato le sue politiche. Emblematico è l’episodio del 1975, quando Chaim Herzog, allora ambasciatore israeliano all’Onu, strappò la Risoluzione 3379 che definiva il sionismo una forma di razzismo. Quel gesto teatrale, acclamato all’epoca, è diventato un simbolo dell’arroganza istituzionale israeliana.

Questa strategia di “uccidere il messaggero” continua ancora oggi. Navi Pillay, Richard Goldstein e Fatou Bensouda, figure centrali nelle inchieste sui crimini di guerra israeliani, sono stati screditati e minacciati per farli cessare di lavorare, e Israele rifiuta ogni forma di cooperazione con le indagini internazionali. Ogni tentativo di mettere in discussione le sue azioni viene sistematicamente soffocato, e il messaggio è chiaro: Israele non accetta critiche né si piega a regole che valgono per gli altri.

Violazioni quotidiane senza conseguenze

Nei territori occupati, le forze israeliane agiscono senza limiti. Uccisioni a sangue freddo, arresti arbitrari, punizioni collettive, demolizioni di case, espansione delle colonie e sfruttamento delle risorse naturali sono pratiche quotidiane. Questa impunità è garantita non solo da un sistema giudiziario interno che assolve i responsabili, ma anche da una comunità internazionale che si limita a condanne verbali prive di sostanza.

Il risultato è un’ingiustizia strutturale: un’occupazione illegale che dura da decenni e crimini di guerra documentati che rimangono senza colpevoli. L’Occidente, che collabora attivamente nel mantenimento di questa situazione, critica Israele con toni moderati, mettendolo sullo stesso piano delle sue vittime, sia civili che miliziane, un gioco di equilibri che non fa altro che proteggere i potenti a scapito della reale giustizia. Questa retorica ipocrita dimostra come il privilegio politico ed economico prevalga sempre sulla responsabilità.

La giustizia deve prevalere

Di fronte a un sistema così distorto, è imperativo chiedere giustizia per le vittime e uguaglianza davanti al diritto internazionale. Continuare a sminuire la forza di una potenza dominante responsabilizzando le sue vittime significa perpetuare un sistema globale di oppressione. La giustizia deve essere una priorità incondizionata.