Passare dalla Lazio alla Roma senza prendersi insulti, senza nessuna polemica, né da una parte, né dall’altra? C’è chi ci è riuscito, come Roberto Clagluna, allenatore, signore d’altri tempi, che oggi non c’è più, ma che il figlio Cristiano racconta. Toscano, anzi, pisano, anche nello spirito, Clagluna è quasi un unicum per tempi come gli […]
Passare dalla Lazio alla Roma senza prendersi insulti, senza nessuna polemica, né da una parte, né dall’altra? C’è chi ci è riuscito, come Roberto Clagluna, allenatore, signore d’altri tempi, che oggi non c’è più, ma che il figlio Cristiano racconta. Toscano, anzi, pisano, anche nello spirito, Clagluna è quasi un unicum per tempi come gli anni ’60 in Italia: “Non veniva dal calcio – racconta Cristiano – o meglio, non aveva fatto la trafila classica: aveva giocato, sì, ma a livelli abbastanza modesti, però aveva tanta passione”. Ma la passione negli anni ’60 non vale quanto una laurea, specie in un periodo in cui di laureati in Italia ce n’erano davvero pochi: “Si laureò in Scienze Politiche e vinse prima un concorso nelle Ferrovie dello Stato, poi nell’Inadel e da lì si trasferì a Roma e iniziò ad allenare i ragazzini dell’Urbe Tevere. Poi, nel 1969 andò alla Lazio: prima gli esordienti, poi gli Allievi con cui vinse lo Scudetto, poi la Primavera. Tutto ciò continuando a lavorare, perché all’epoca allenare le giovanili non consentiva di mantenere una famiglia”.
E dunque tutta la trafila delle giovanili per Clagluna e i colori biancazzurri che diventano quasi d’ordinanza in casa: “Io sono cresciuto a Tor di Quinto – racconta Cristiano – ho imparato ad andare in bici al Maestrelli che non esiste più, mi cambiavano i pannolini dove si raccoglievano le magliette: dopo la scuola per me c’era la Lazio. Io scorrazzavo in bici tra Chinaglia e D’Amico. Ancora oggi ho uno splendido rapporto con Lionello Manfredonia. Insomma ero di casa alla Lazio, anche se papà era inflessibile: al campo e agli spogliatoi non avevo accesso, ma non ce l’avevano nemmeno i presidenti con lui”. Già, Vincenzo D’Amico: “Papà fu il primo che ne intuì il talento quando lo ha avuto nelle giovanili. Ma era uno che si fermava anche a guardare i ragazzini che giocavano per strada. Ah, e c’è un aneddoto che mi hanno raccontato, quando lui già se n’era andato, riguardo al fiuto che aveva per il talento: segnalò a Moggi, all’epoca credo fosse al Torino, un giovane interessante che giocava nella Lodigiani. Era Francesco Totti. Poi alla Lazio ha avuto anche Mauro Tassotti, Carlo Perrone, Marronaro: diversi dei suoi ragazzi sono arrivati in A”.
I suoi ragazzi, ma senza sconti per il figlio: “Da maschio, che aveva vissuto l’ambiente calcio ovviamente volevo giocare, ma non ho mai avuto un riscontro da lui: sono riuscito a convincerlo e ho fatto tre anni di scuola calcio alla Lazio, avevo tra i compagni gente come Oberdan Biagioni o Gigi Di Biagio, ma lui non è mai venuto ad un allenamento o ad una partita. Una volta mi hanno detto che era nascosto dietro ad un albero, in un campo sul Lungotevere, per non farsi vedere: faceva bene, non voleva condizionare o infastidire l’allenatore con la sua figura”. Senza perdere mai la toscanità, neppure di fronte al figlio: “Arrivò il momento in cui gli dissi che non volevo più giocare, che mi sarei ritirato. Cosa mi rispose? Mi mise una mano sulla spalla dicendo solenne ‘Il calcio italiano ringrazia‘. Mi piace pensare sia per quanto dato al calcio fino ad allora, ma sospetto che si riferisse ad altro (ride, ndr)”. E poi la scaramanzia: “Pensate che quando si partiva per le partite il pullman non poteva fare retromarcia: per fare le manovre mio padre faceva scendere tutta la squadra”.
Lati di colore, di un allenatore con una passione smisurata e pronto a dare tutto per i suoi calciatori: “Pretendeva serietà, ricordo che diceva ‘Se vedo qualcuno che in allenamento si ferma ad allacciarsi le scarpe può andare direttamente negli spogliatoi, senza rientrare in campo’, ma poi si faceva in quattro, dal punto di vista umano, per i suoi calciatori”. Un trionfo alla Lazio, portata dalla B alla A seppur con una macchia, l’esonero a poche giornate dal termine: “Quello è il più grande dolore che si è portato dietro mio padre – prosegue Cristiano Clagluna – ci furono vicissitudini societarie, forse c’erano ambizioni diverse, situazioni anomale, mio padre fu esonerato e poi a sorpresa arrivò Chinaglia: ma non c’è nessuno che non attribuisce a mio padre i meriti di quella Promozione”.
E poi la Roma, con Eriksson: “Beh io da ragazzo laziale non è che fui troppo contento eh, però neppure mi ammutinai in casa. Il mestiere era quello, lo sapevo. Mi piace ricordare però che nessuno lo attaccò, nessuno fece polemica, né da una parte né dall’altra. Con Eriksson ci fu un bel rapporto: una bella collaborazione visto che era papà che andava in panchina”. Dopo Roma, Como e poi tante esperienze in provincia: “Le più belle? Sicuramente San Benedetto del Tronto e Pistoia: a San Benedetto due salvezze che valevano quanto uno scudetto, nel passaggio dal Ballarin, che era un ring più che uno stadio, al Delle Palme, a Pistoia una promozione meravigliosa: c’è ancora una grande amicizia con Vannino Vannucci”. E poi un ruolo inedito: consulente di tattica calcistica per gli arbitri.
Roberto Clagluna è scomparso improvvisamente nel 2003: “Cosa lascia? Una enorme passione per il calcio: credo sia uno dei pochi che l’ha vissuto da ogni angolatura, allenatore dei ragazzini, dei grandi, allenatore sul campo con direttori tecnici come Eriksson prima e Perez poi, e addirittura anche con gli arbitri. Una persona che amava veramente il calcio, anzi, come diceva lui, il pallone”.