L’Alcinoo di Yiannis Efthimiàdis è un poema nato per il “drama”, l’azione scenica. Un uomo, rinchiuso nell’angusto spazio del proprio “nous” – della mente pensiero – guarda alle profondità del proprio animo, cerca la verità del proprio Essere. E parla a ciò ch’egli vede di sé: un corpo più giovane, ovvero la propria sostenza in un corpo di giovane uomo che giace davanti ai propri occhi. Il nome Alkinoos va inteso nella sua dimensione etimologica, ossia “alki”, il potere della mente: l’intera composizione va nella direzione del sanare una scissione, quella dell’esistenza umana tra ragione ed emozione.
Il giovane uomo viene presentato in uno stato di sonno o di necrosi, mentre l’uomo maturo si fa carico della narrazione poetica monologica. In sostanza, si tratta di un atto unico in cui si svolge e si sviluppa l’intenzione di un’unione erotica, intesa nella sua accezione archetipica: atto creativo, immersione assoluta e catalitica nella profondità dell’esistenza umana, dove pulsa la verità del sé. Man mano che il discorso procede, il lettore può percepire i passaggi che la coscienza poetica attraversa, partendo dalla meraviglia per arrivare all’identificazione assoluta; dove l’io si è unito al tu e attraverso questa unità può e continua il viaggio nell’esistenza e nel tempo.
C. C.
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Stanza quadrata, buia. Senza porta, senza finestre. Nel mezzo un basamento di marmo bianco e sopra il corpo spoglio di un giovane uomo, disteso bocconi, con la testa tra le mani. Nell’immobilità del sonno. In un angolo un altro uomo dal pizzo imbiancato sta dritto in piedi, spalle al muro, gli occhi arrossati da molte notti insonni e lo sguardo inchiodato al corpo nudo del giovane. Lo bagna una luce diretta – lui solamente. E dice:
Sul piano semi illuminato il tuo nudo corpo riposa, come senza respiro
Sopra il duro marmo, spruzzato dell’alito d’umida grotta di roccia inferocita
Ti guardo: solo questo posso, quattro passi più in là, nell’ora notturna della mia insonnia
Quale bizzarro parto della mente, quale coraggioso scalpello foggia e figura ti regalano?
La luce acceca nel buio compatto, vestendo così la nudità del tuo corpo
Come coperto dalla fuliggine che, me lo chiedo, sembra rifrangersi e scaturire
Cercando devotamente di nascondere tutto l’indicibile, e questo per la mia eccitante vergogna?
Domandano i miei occhi, le orecchie tese, poiché ormai il tuo nome è perso
Eco pesante dalle tue viscere sale come lava da un vulcano di passione imbalsamata
“Alcinoo, Alcinoo” ruggisci e nuovamente ti spogli dentro il sonno profondo
Le mie mani carezzano il vuoto, anziché senza regola stringere la tua carne infuocata
Cancellano nella notte le tracce dell’ansia di toccarti quanto più spinge il desiderio
Come lo scultore, i palmi tuffati nell’argilla, così io pure immagino il tuo corpo
Inutilmente mi tengo a un’implacabile distanza dal tuo terribile alabastro, tuo slancio madreperlaceo
Le dita dal polso, le braccia dalle spalle chiedono di staccarsi
Esserti vicino, saziare l’affrancamento dal bell’inferno ove decisi la mia casa
Ma le mordo, le trattengo, non rallegrino neppure una spanna della tua pelle nuda
Neppure la più piccola cellula, una goccia del sudore sulle labbra, sulle articolazioni
Incatenato sopportare l’enorme desiderio, un volere selvaggio incanta la mia mente
Fino a che il delirio dolcemente m’addormenta con arcano torpore profondamente nell’oceano del sogno
Così come nel buio brillano i tuoi glutei penso a tante statue che mi son trovato innanzi
In angoli semibui di musei carezzate da visioni o un tempo bagnate dalla luce all’aperto
Ma noi mai e poi mai osiamo sfiorare la loro eccellente bellezza in mezzo alla gente
Eccetto se rimaniamo soli, noi e loro, e anche allora con vergogna la carezza furtiva
Lasciamo sulla lucida linea, ugualmente io adesso qui inchiodato guardo solamente
E sono i miei occhi leoni insaziabili pronti a dilaniare le carni dell’innocente cerbiatto
Quando si corica, come te, in un letargo che aizza la bocca furiosa, spensierato, imperturbabile
Perfetta vittima carnefice, poiché ogni poro della pelle chiama i denti a conficcarvisi profondi
La fiamma delle cellule bolle dinnanzi al delitto, e le membra sciolte, tendendosi
Come meduse che s’avviluppino con tentacoli di desiderio alla disperazione, riversano fiele-farmaco
Alcuni attimi ti credo respirare, mi pare sussulti il tuo petto
E il mio cuore sobbalza, dico ora ti alzerai, sarai tu a raggiungermi e a toccarmi
Come nei miei sogni più profondi, nelle notti agostane, quando il cielo si strugge magnificamente
Come un angelo ti immagino, etereo, discendere, perfettamente oscuro, e ti riversi su di me in doppia ombra
Ti stendi sul mio corpo, sei il mio odore, la mia pelle, i palpiti nelle mie vene
E così in profondità mi baci, quasi io stesso mi baciassi, fosse possibile una volta almeno
I respiri si mescolano, inspiro espirando e tu succhi il mio espiro nel sonno
Un respiro mai provato prima, come un vortice tra le stelle, splendono i tuoi occhi accesi
Dentro i miei occhi, s’avventano a incendiarli come lame ardenti senza fuoco
Fuoco il desiderio di giungere fino alle mie fiere viscere attraverso te
Le tue mani, bianchi fiumi che mi avvolgono, a volte in sciabordio, altre in carezza
Sulla schiena, lungo il collo, il petto come un discorso tracciato in segreto in una lingua ancora mai pronunciata
Altre ancora come remi mi fanno viaggiare nel suo vasto infinito e nel suo perfetto universo
Ciò che c’è tra noi, nello spazio tra il mio sguardo e il tuo sguardo che stilla ogni sera
Remano, remano fendendo le onde, allacciano, si allacciano prodigi attorno alla mia vita
Con gli azzurri stigmi sulle loro creste, freddo sangue che ha inciso in sigillo ogni mia preghiera
Così appena s’aprono sul marmo, bianchissime e insieme glaciali, si fan marmo anch’esse
Inflessibili come bacchette da percussione le dita, i palmi, i gomiti cercano misura alla resistenza
I desideri che scongiurano dentro la memoria ogni volta che il cielo va per oscurarsi
Ampia cupola, copertura, spazio aperto e confine al desiderio che nasce alla mia mente
Brilli e tramonta ancora la notte, quasi in attesa di coricare il tuo corpo divino
E come i colori più sublimi profumati sembrano arrendersi anche stasera al buio
Così tu pure o per meglio dire la tua eccellente solitudine si ritira dinnanzi al mio sguardo
E tuttavia si delinea il tuo contorno perfetto, statua indomabile s’agita radiosa
Si bacia, trema, s’accoppia e si fonde, pure se non sazia l’umido mio desiderio
E se non ho plasmato un altro sé che si trascina impercettibilmente fin lì a carezzare
L’estasi della forma, la tua aura impalpabile, perché il corpo non osa farsi toccare
Sia mai si rompa il vetro intorno al sogno, sia mai si spenga il pensiero che t’ha messo al mondo
[…]
***
Yiannis Efthymiadis è nato nel 1969 al Pireo. Ha studiato letteratura classica e ha fatto studi post-laurea in teatro greco antico. Ha pubblicato sei raccolte di poesie e un saggio letterario. Ha tradotto poeti inglesi e americani. Le sue poesie sono state inserite in antologie greche e straniere e sono state tradotte in inglese, francese e tedesco, mentre il ciclo di poesie The Crystal of the World (Metronomos 2016) è stato musicato e registrato. Svolge attività didattica, ha pubblicato libri di filologia per l’insegnamento secondario e collabora con riviste letterarie, cartacee ed elettroniche.