di Giuseppe Castro

Gli investimenti in istruzione e in ricerca sono i pilastri su cui si costruisce il futuro di una nazione. L’istruzione forma i giovani che tra qualche decennio guideranno l’Italia verso nuove sfide, mentre la ricerca scientifica rappresenta la chiave per innovare, acquisire competenze strategiche e mantenere la nostra competitività nel mercato globale. Eppure, quanto sta realmente investendo il nostro Paese su questi fronti fondamentali?

Negli ultimi decenni, i fondi destinati all’istruzione pubblica in Italia hanno subito una progressiva erosione. Se nel 2010 il nostro Paese destinava circa il 4,5% del Pil all’istruzione, una cifra già inferiore rispetto alla media Ue del 5.4%, questa percentuale è gradualmente diminuita, scendendo al 4% nel 2019 e toccando il minimo storico del 3,8% nel 2021. Altrettanto critica è la situazione degli investimenti in ricerca e sviluppo. Dal 2010, la quota di Pil destinata a ricerca e sviluppo è passata da circa l’1,2% all’1,4% stimato per il 2023, una crescita lenta e discontinua, ottenuta principalmente grazie ai fondi Pnrr. Tuttavia, questa percentuale rimane ben al di sotto della media Ue, che si attesta intorno al 2,3%.

Un’analisi più approfondita rivela tuttavia che l’1,4% è una stima ottimistica. Gli enti pubblici di ricerca (EPR), infatti, operano sotto le stesse leggi e regolamenti della pubblica amministrazione, con procedure burocratiche inadeguate alle specificità della ricerca scientifica.

Tutti gli acquisti sono infatti gravati dal 22% di Iva (ossia lo Stato riassorbe con l’Iva una parte non indifferente dei suoi finanziamenti). Inoltre, gli EPR sono obbligati a utilizzare il Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MEPA) con procedure pensate per scuole e ministeri e che, applicate agli EPR, risultano lente e inefficaci. Determinate procedure di acquisto possono durare anche anni, specialmente per acquisti da fornitori esteri o non registrati al MEPA. Poiché i progetti di ricerca di cui ci occupiamo devono comunque rispettare tempistiche ben definite, si ricorre frequentemente ad intermediari: aziende iscritte al MEPA che acquistano dai fornitori esteri e rivendono agli EPR con ricarichi che variano dal 20% al 100%, con conseguente spreco di risorse.

Il risultato complessivo è una drastica riduzione dell’impatto reale degli investimenti nella ricerca scientifica ben al di sotto dell’1,4% sopra menzionato.

Per non parlare dello spreco di tempo e di personale per star dietro a bizantinismi che risulterebbero sorprendenti per molti lettori. Gli investimenti sul capitale umano soffrono di problemi altrettanto strutturali. Le assunzioni negli EPR e nelle università non seguono una strategia a lungo termine, ma dipendono dalle decisioni politiche e dalle leggi di bilancio. Questo genera una gestione discontinua: lunghi blocchi delle assunzioni, che spingono molti ricercatori di talento a emigrare, si alternano a fasi di reclutamento massiccio che possono portare anche all’ingresso di personale poco qualificato. Tali eccessi riducono la qualità complessiva della ricerca e del personale che dovrebbe occuparsene.

Questa situazione solleva due domande cruciali: un paese che destina così poche risorse, e in modo così inefficace, all’istruzione e alla ricerca, può avere un ruolo da protagonista nei prossimi decenni? Quale idea di futuro ha l’Italia per sé stessa? Continuando così, l’Italia rischia di perdere la sua corsa verso l’innovazione, soffocata da una burocrazia che paralizza gli investimenti e da una visione politica miope, incapace di riconoscere che il progresso nasce da istruzione e ricerca.

La bozza della legge di bilancio 2025 non solo non offre soluzioni, ma propone tagli all’istruzione e alla ricerca per circa l’8% del fondo di finanziamento, un colpo di grazia per il settore. È indispensabile un cambio di rotta: servono politiche coraggiose, investimenti strategici e una burocrazia semplificata, per trasformare le risorse disponibili in opportunità concrete.

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