A volte anche i luminari accademici, consulenti di parte nel più importante processo per inquinamento in corso in Italia, si sbagliano. E commettono un errore di calcolo grossolano, abbattendo indebitamente di 70 volte la presenza dei Pfas contenuti nell’acqua potabile e di conseguenza il rischio per la salute umana. È accaduto nell’aula della corte d’assise di Vicenza, dove si è svolto il contro esame di due docente universitari, entrambi citati dai difensori dei manager della Miteni di Trissino, accusati di disastro ambientale per la diffusione delle sostanze perfluoroalchiliche nella falda che sta nel sottosuolo di mezzo Veneto. A deporre sono stati chiamati Paolo Boffetta, epidemiologo e ordinario di Medicina del Lavoro all’università di Bologna, e Claudio Colosio, docente all’Università statale di Milano. La firma di entrambi è apposta in calce a una “Relazione di consulenza tecnica” che ha per oggetto la “revisione critica dell’evidenza sugli effetti sulla salute esercitati da sostanze Pfas”.

Si tratta di un documento di 81 pagine che ha esplorato database scientifici e valutato in modo critico circa 650 pubblicazioni scientifiche, alla luce del patrimonio scientifico elaborato dalle principali Agenzie nazionali e internazionali che si occupano di inquinamento e salute umana. Si tratta, in particolare, di Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare istituita nel 2002 dall’Unione Europea di cui è un’agenzia, e di Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I due consulenti della società Icig, proprietaria per alcuni anni della Miteni, hanno sostenuto che non esista una correlazione certa tra Pfas e patologie mediche, come le malattie cardiovascolari, la malattia ischemica del cuore, le malattie cerebrovascolari, l’ipertensione arteriosa, l’ipertensione gravidica, il diabete e il cancro. Hanno evidenziato solo una limitata associazione tra Pfoa e tumori al rene e al testicolo.

La conclusione è stata affidata alla pagina finale della relazione, un aggiornamento della valutazione del rischio sull’organismo umano, basato sui dati dello studio epidemiologico Mastrantonio riferito alla concentrazione massima di Pfas nell’acqua potabile accertata nella “zona rossa” (i Comuni più inquinati del Veneto). “Secondo Efsa (2020) – hanno scritto i due docenti – una dose di 44 nanogrammi al giorno per soggetti di 70 chilogrammi di peso, è protettiva per la salute umana”. Questo il dato scientifico di raffronto per calcolare il rischio per chi ha bevuto quell’acqua nelle province di Vicenza, Padova e Verona per anni. “L’apporto giornaliero nella popolazione del Veneto (dati di contaminazione dell’acqua nel 2013 indicati da Mastrantonio) è stato al livello massimo di Pfoa di 1.173 nanogrammi per litro”. I luminari hanno riportato una semplice operazione aritmetica, elaborando i dati di Mastrantonio. Calcolando un consumo d’acqua di due litri al giorno per persona, si arriva a 2.346 nanogrammi di Pfoa assunti al giorno da una persona, che equivalgono (dividendo il totale per 70, considerato il peso medio in chilogrammi) a 33,5 nanogrammi/kg al giorno.

È bastato questo numero magico – 33,5 nanogrammi – inferiore a quello indicato da Efsa – 44 nanogrammi al giorno – per far concludere trionfalmente a Boffetta e Colosio: “L’apporto stimato in base alle massime concentrazioni di Pfas nell’acqua potabile (Mastrantonio) è nei limiti protettivi (Efsa)”. D’incanto i valori fuori norma sono scomparsi e per sottolineare il rilievo decisivo della conclusione, tutta la frase è stata evidenziata in neretto e a caratteri cubitali. Durante il controesame hanno però trovato sulla loro strada l’avvocato di parte civile Matteo Ceruti, un autentico esperto di diritto ambientale. “Mi scusi professor Colosio – ha detto rivolgendosi a uno dei due consulenti – non crede che quel dato numerico vada rettificato, visto che Efsa si riferisce alla dose massima consentita al giorno per una persona di 70 chili di peso, mentre il dato da voi estrapolato è riferito alla dosa massima consentita per ogni chilogrammo di peso di una persona?”. A quel punto Colosio ha capito di essersi infilato in una trappola aritmetica senza via d’uscita, le cui ripercussioni sono pesanti in un processo per un grave inquinamento. Basta moltiplicare i 33,5 nanogrammi/Kg per 70 volte e si arriva all’equivalenza di 2.346 nanogrammi al giorno di concentrazione di Pfas nell’acqua potabile che è stata bevuta: 53 volte superiore a quella consentita da Efsa. Colpito e affondato, il professor Colosio ha dovuto ammettere: “Riconosco che sono incorso in errore”. I numeri avrebbero dovuto dimostrare come la quantità di Pfas ingeriti (con la sola acqua, ma ci sono anche quelli contenuti negli alimenti) nei comuni della “zona rossa” fosse perfettamente compatibile con i limiti Efsa. Invece hanno provato il contrario. Il processo ai 15 imputati è giunto alle udienze finali. Discussioni e sentenza sono previste nel primo semestre del prossimo anno.

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