Sport

Volley, basket, tennis: lo sport non è solo regole, ma anche una sensazione precisa

di Marco Pozzi

Dopo anni e anni di sport, può capitare di assistere alla prima partita di volley dal vivo. Femminile, serie A1. Ritmo alto, velocità, tifo continuo con boato ad ogni punto.

Rispetto al basket le meccaniche sono più ripetitive – mi pare – e le possibilità d’improvvisazione sono minori. Forse anche le letture del gioco. Non si corre poi, cosa stranissima, col gioco che arriva a fiammate lasciando difficile immaginare il fiatone. Manca il contatto, quindi c’è un rapporto diverso con gli infortuni, meno frequenti rispetto a competizioni basate sugli scontri e sulla resistenza corpo-a-corpo; un minor numero di arti è a rischio, meno preoccupazione mentale nel tutelarsi nelle cadute.

Manca anche il contatto verbale: le due squadre non si parlano, non si provocano, né sostengono, come fossero assolutamente due entità distinte, tagliate in due dalla rete, mentre nel basket spesso la provocazione diventa una capacità, tanto da aver un nome apposito (trash talking). Forse, nel volley, il fatto di darsi sempre il cinque ad ogni punto, ogni giocatore con tutti i suoi compagni, è una specie di compensazione alla mancanza di contatto con l’avversario. La pausa fra un punto e l’altro lo consente, cosa che sarebbe impossibile se bisognasse correre subito in difesa.

E, parlando di relazioni fra compagni, particolare è il cambio uno ad uno che avviene, con due giocatrici che possono entrare e uscire solo alternandosi fra loro (col libero che entra, esce, può fare solo alcune cose, ha una maglia differente), mentre nel basket le sostituzioni sono libere e senza limiti, ogni giocatore per qualunque altro se l’allenatore lo decide: la scacchiera è più ampia, più combinazioni fra i giocatori in campo e quindi, con la formazione del momento, d’impostare un gioco oppure un gioco diverso, con infinite possibilità d’interazione nei singoli per creare differenti insiemi.

Anche il conteggio dei punti ha un impatto: nel basket, come nel calcio, o pallanuoto o in altri sport di squadra, i punti si sommano per l’intera durata della partita. Nella pallavolo, come nel tennis, i set fanno sì che il punteggio periodicamente si annulli e si svolgano tante partite più piccole, col punteggio che ogni volta comincia da zero, set dopo set dopo set.

Cambia l’approccio psicologico alla motivazione, poiché il poter ricominciare da zero dà speranza ma anche scoramento, suscitando un lavoro da compiere molto più lungo e minuzioso rispetto a quel punteggio progressivo del basket quando, se la partita è andata è andata, mentalmente ci si sgonfia, e non si aspetta che la fine per riscattarsi nella partita successiva, dopo qualche giorno, qualche allenamento, qualche discussione, adeguamenti studiati, riflessioni etc; mentre nel volley e nel tennis la partita ricomincia subito dopo, e tutte le fasi che in altri sport si svolgono durante giorni, insieme ai compagni e allo staff, lì avviene in qualche minuto, il tempo di un cambio campo e di distribuirsi ancora in campo, ai due lati della rete.

Nel tennis tale processo è ancora più accentuato: ogni game riparte da 0-0, si è in vantaggio e svantaggio di continuo, e la concentrazione non deve risentire del singolo momento, poiché rischierebbe di salire e scendere di continuo, logorando la mente di chi la prova, come un continuo attrito, sfibrante. Inoltre, molte pause: lo sforzo va a fiammate e fra un punto e il successivo la tensione si rilascia, l’atleta può compiere alcuni passi “in tranquillità”, temporeggiando magari andando fino all’asciugamano, cercando di toglier via col sudore anche qualche cattivo condizionamento che sta vorticando in testa.

È una pausa rigenerante; oppure logorante, un tempo eterno che non si conclude mai perché, nella pausa del gioco, si prende consapevolezza di quando male stia andando la partita e di quante poche possibilità s’hanno che vada diversamente, come di fronte a un corridoio senza scampo, in discesa, che porta fino al macello.

E non si può sperare in un compagno di squadra che sia più in forma, come a volte nel basket, di qualcuno che accorra in aiuto compensando lo stato sfiduciato con un corrispondente stato di grazia. Nessuno è il salvatore di un altro; ognuno è se stesso, vincente o perdente, senza intermediazioni, se non mediante la pallina che a ogni volta infligge un successo o un fiasco.

È una specie di virus la sferetta gialla (più impazzita della palla arancione a spicchi), un elemento incontrollabile, un oggetto estraneo che si muove e decidere chi ha ragione e chi ha torto: non ci si può appellare; è così, soltanto da recepire.

Tutti questi fattori partecipano all’identità di ogni singolo sport, che non è soltanto composto dalle regole scritte su carta, e sugli aggiornamenti (che negli ultimi tempi sono stati forti nel basket e nel basket, da modificare il gioco). Ogni sport è anche la “sensazione” di quello sport, i rapporti che provoca fra esseri umani: fra atleta e atleta, fra compagnie e avversari, fra atleti e pubblico, fra atleta e se stesso.

E chissà quante combinazioni d’influenza, fra esseri umani che in quello sport, in quel momento, vivono una particella della propria esistenza, condividendola con altri. Far caso e provare a capire tutto ciò aiuta a capire cosa sia lo sport, e dunque quale ruolo sociale ricopra verso gli individui e verso le collettività.