Quando indossa il suo camice bianco Giuseppe Corte, 42 anni, ha un déjà-vu. Rivede se stesso ancora studente aggirarsi per i corridoi del Policlinico di Palermo. Lì, al quarto anno di Medicina, ben prima di accedere ai test di specializzazione, usava il suo tempo libero per imparare dal primario e ha capito di voler fare il chirurgo vascolare. Questo mestiere però lo ha svolto soltanto in Spagna, dove si è trasferito circa dieci anni fa subito dopo aver terminato gli studi in Sicilia, dove è nato. “A Palermo ho imparato tanto – racconta a ilfattoquotidiano.it – ma volevo un posto in cui crescere professionalmente e ho sempre saputo che difficilmente sarei rimasto lì”.
La scusa per partire è venuta dall’amore. Negli anni universitari si è innamorato di una ragazza madrilena in Erasmus a Palermo e dopo un po’ hanno progettato un futuro insieme. Una famiglia, dei figli, che effettivamente sono arrivati, ma non in Italia. Il piano era andare all’estero, dove c’erano più possibilità. “Ho avuto un professore illuminato – racconta – che mi ha permesso di trascorrere gli ultimi mesi di specializzazione in Olanda e di farne altri sei all’ospedale universitario di A Coruna per stare vicino a quella che oggi è mia moglie”.
L’esperimento è andato bene. Dopo i primi lavori in cliniche private, oggi Giuseppe sta lavorando nel pubblico nella Murcia. “Qui ho turni da circa 7 ore a cui si aggiungono 10-15 ore di reperibilità – dice -. È richiesta flessibilità, soprattutto per gli interventi, ma c’è grande collaborazione e i ritmi non sono massacranti”. Di solito Corte lavora fino alle 15, nel pomeriggio si occupa degli interventi chirurgici e poi a rotazione con i colleghi gestisce le emergenze. “Dobbiamo assicurare 60 ore di reperibilità al mese, dividendole per 4 o 5, a seconda di quanti siamo. Non sono poche ma l’ambiente è positivo”.
Giuseppe non nasconde i momenti di stress e fatica, ma riconosce che il carico di lavoro per il momento è adeguato. “Qui non abbiamo liste chiuse o bloccate, anche se il problema esiste anche in Spagna. L’ospedale in cui lavoro ha infrastrutture nuove e un organico proporzionato alle esigenze”. Pochi mesi fa un collega conosciuto negli anni universitari gli ha proposto di tornare per un posto vacante in un ospedale siciliano. “Ho riflettuto sull’opportunità di tornare a casa, perché mi manca la Sicilia, ma quando ho chiesto informazioni sul compenso non ho potuto accettare: avrei dovuto rinunciare a oltre metà del mio stipendio”. In effetti, a rientrare Giuseppe non ci pensa proprio. “Dal punto di vista professionale non ci vedrei un gran vantaggio – spiega -. Molti decidono di rimanere in Italia per nostalgia di casa, per attaccamento al posto in cui sono nati e li capisco, ma ho fatto un’altra scelta”.
La sua decisione è stata agevolata anche dai familiari. Quando è partito ha seguito le orme della sorella, psicologa ad Alicante, che in Spagna, come lui, ha costruito la sua famiglia. Poco dopo il trasferimento di Giuseppe, i genitori hanno deciso di passare lunghi periodi insieme ai figli. “Una volta andati in pensione hanno preso una casa in affitto in riva al mare e vengono a trovarci per settimane intere per godersi figli e nipoti”, racconta. Il paradosso è che quasi non avrebbe senso rientrare in Italia, né per gli affetti né per il lavoro.
A Corte, che segue dall’estero i problemi della sanità italiana, piegata dalla carenza di medici e dalle liste d’attesa infinite o bloccate, sembra che la Spagna nel complesso funzioni meglio. “Qui le assunzioni sono decise dalle comunità autonome, si accede per concorso e con delle borse lavoro”, spiega. Il meccanismo è simile a quello italiano, dove il controllo avviene tramite le regioni. In Spagna però funziona: “Non ci sono grosse inefficienze qui, i medici ricevono un compenso adeguato e si presta grande attenzione alla loro lucidità”. Molti dei suoi colleghi palermitani hanno iniziato a lavorare nel Nord-Italia dopo la specializzazione, alcuni sono riusciti a tornare nel tempo in Sicilia o ci stanno provando. “Li capisco – dice -, io però sto bene qui”.