di Michele Canalini
“A cosa serve la storia?”, si chiede Stefano Folli recensendo, sul supplemento Robinson di Repubblica del 17 novembre, il libro di Aldo G. Ricci Elogio della storia, pubblicato da Oaks Editrice. La risposta la si può ricavare solo dal contesto: di fronte al “disordine e all’inquietudine che attraversano il mondo e lo rendono un posto
pericoloso”, solo la dimensione profonda degli avvenimenti è, secondo Folli, il modo per “guardare verso il futuro e presagirne il senso”.
Già lo storico francese Fernand Braudel aveva scritto un libro intitolato Storia misura del mondo: era il frutto di alcune lezioni tenute in un campo di concentramento e raccolte durante la sua prigionia in Germania nel 1944. Pur in un contesto tragico, lo storico transalpino era riuscito a presentare un’impostazione nuova della narrazione degli eventi, destinata a uomini comuni ma capace di analizzare i cambiamenti con uno sguardo allargato e moderno al tempo stesso.
E a proposito di narrazioni profonde, a me è venuto in mente anche un libro di Antonio Scurati di qualche anno fa, prima della monumentale monografia su Mussolini. Il titolo è Il tempo migliore della nostra vita e ritrae magnificamente il travaglio interiore e il calvario umano dell’intellettuale antifascista Leone Ginzburg, un combattente mite ma integerrimo e irriducibile. Il senso della testimonianza umana di Leone Ginzburg si racchiude, infatti, nella resistenza indomita alla follia disumana dei fascismi di quel periodo: una testimonianza che non gli impedì di crearsi una famiglia, a dispetto della persecuzione atroce di cui lo scrittore fu vittima e che lo condusse alla morte nell’infermeria del carcere di Regina Coeli la notte tra il 4 e il 5 febbraio 1944, a seguito delle percosse inflittegli dai carcerieri nazisti.
Poche ore prima di morire, scrive Scurati, Leone Ginzburg aveva lasciato un biglietto alla moglie Natalia Levi, sposata il 12 febbraio 1938. “Ciao amore mio, tenerezza mia. Fra pochi giorni sarà il sesto anniversario del nostro matrimonio. Come e dove mi troverò quel giorno? Di che umore sarai tu allora?”.
Leone Ginzburg non vide mai quel giorno, ma ci ha lasciato un’eredità di integrità morale tale da indicarci la direzione di marcia per il futuro, come ricorda proprio Scurati: “Sono parole ultime nelle quali le ragioni prime di un’esistenza, e di una militanza, si ricapitolano in uno sguardo retrospettivo, equanime e onnicomprensivo, gettato dietro un attimo prima di andare. Nella lettera di Leone a Natalia non è in gioco solo l’affetto di un marito per sua moglie, di un padre per i suoi figli, ma anche la riaffermazione di valori per i quali si è vissuto, di diritti fondamentali per i quali si è combattuto, la soddisfazione per una vita ben spesa”.