di Mosè Vernetti

Mentre le navi di Emergency e Mediterranea salvano le vite delle persone migranti in mare, sulla terra ferma una coalizione di movimenti sociali italiani e albanesi sta organizzando, tra Tirana, l’hotspot di Shengjin e il Cpr di Gjader, una due giorni di mobilitazione in occasione dell’anniversario della firma degli accordi Meloni-Rama. Il messaggio che portano è chiaro: “no ai lager, no ai Cpr. No in Albania, in Italia e in Europa”.

Il Network against migrant detention aveva annunciato la protesta lo scorso 6 novembre durante una conferenza stampa davanti al parlamento albanese. Ora si è organizzata e, insieme ai collettivi albanesi Europe Other e Meshde (Mediterraneo), più di 200 persone provenienti da realtà politicamente eterogenee da tutta Italia, hanno deciso di portare i loro corpi di fronte ai cancelli dell’ormai conclamato fallimento del governo Meloni.

“Questi muri rappresentano il fallimento di un governo che vuole vedere i corpi reclusi, sia quelli dei migranti che quelli dei solidali”, dice un attivista di Ya Basta Bologna al megafono mentre la carovana giunge alle porte dell’Hotspot. “Questo è il vero accordo tra Italia e Albania, tra i nostri popoli, che andrebbe esportato nel resto d’Europa al posto dei Cpr”, dice Edison, attivista di Mesdhe, al Fatto Quotidiano, dalla spiaggia di Shenjin. È in questa località marittima semi-deserta che si è tenuta la prima parte della mobilitazione di ieri mattina.

Qui la comunità locale si affacciava curiosa di fronte al corteo di attivisti italiani che intonavano cori albanesi come “Pa Kufi, Pa Qeli” (no ai confini, no alle prigioni!), partendo dall’hotspot fino alla spiaggia. “Noi siamo qui anche per le persone di queste zone a cui non è stato chiesto niente. Hanno visto erigere dei muri davanti a casa loro. Ho parlato con molti di loro e sono rattristiti e delusi”, mi confida Oriola, attivista di Europe Other. “Come persone storicamente migranti abbiamo subito questo accordo”, afferma, davanti al tricolore e alla bandiera dell’Ue Fioralba, attivista italo-albanese. “Sono contenta che da oggi sia emerso l’approccio neocolonialista alla base di questi accordi. Vogliamo reagire al rapporto di sottomissione con l’Italia e con l’Europa”, aggiunge Oriola.

“Albania, non hai bisogno dei Cpr per entrare nell’Unione Europea”, grida al megafono Kaba Mohamed di Refugees Welcome, davanti agli altissimi cancelli del Centro per il rimpatrio a Gjader, dove nel pomeriggio la carovana si è spostata per un presidio. Dietro i cancelli chiusi di quella che è a tutti gli effetti una prigione – nella sperduta montagna albanese – si intravedono una ventina di poliziotti italiani in tenuta anti sommossa. La protesta però è pacifica e non conflittuale, e il contrasto tra la folla eterogenea e la struttura di colore grigio mostra due volti di Europa opposti: “Da un lato quella che ha prodotto il diritto grazie al quale il Cpr e l’hotspot sono vuoti. Dall’altro l’Europa dei nazionalismi, che vogliono questo modello per il futuro dell’accoglienza”, si sente da un’intervento che fa riferimento al Patto europeo migrazione e asilo.

Perché nonostante l’accordo Italia-Albania sia fallito clamorosamente, così come altri tentativi simili come quello del Regno Unito con il Rwanda, il governo Meloni sta giocando la sua ultima carta per riabilitarsi con il decreto flussi, con l’intenzione di smarcarsi dai tribunali che finora non hanno convalidato i trattenimenti dei richiedenti asilo nei Cpr in Albania. Per ribadire che c’è un altro modello, quello della solidarietà, questa mattina la carovana si sposterà a Tirana per un corteo nel centro città, che passerà anche dall’ambasciata italiana.

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