Nell’estate del 2011 fu proprio ad Aleppo che germogliò il seme, piantato nella piccola cittadina di Dar’a, delle proteste anti-governative siriane. Oggi, a più di 13 anni dall’inizio della guerra civile siriana, la nuova fiammata dell’interminabile conflitto divampa ancora in quella che è per tutti la città martire del Paese: la seconda più grande, gioiello […]
Nell’estate del 2011 fu proprio ad Aleppo che germogliò il seme, piantato nella piccola cittadina di Dar’a, delle proteste anti-governative siriane. Oggi, a più di 13 anni dall’inizio della guerra civile siriana, la nuova fiammata dell’interminabile conflitto divampa ancora in quella che è per tutti la città martire del Paese: la seconda più grande, gioiello culturale devastato da un assedio durato quattro anni e da un terremoto che nel 2023 ha colpito tutta l’area al confine tra Siria e Turchia.
Si ritorna sempre lì, ad Aleppo, come in un sadico refrain. La città è stata tra le prime ad accogliere le proteste contro il regime di Bashar al-Assad, a metà del 2011, represse poi nel sangue dalle forze governative. Una repressione che durò fino a quando vari gruppi dell’infinito panorama dei ribelli anti-Assad, tra cui anche formazioni di matrice jihadista, lanciarono un’offensiva sulla città riuscendo a respingere indietro le forze fedeli a Damasco e arrivando a conquistare numerosi quartieri. Tanto che, una volta stabilizzate le posizioni, si iniziò a parlare di una città divisa in due: a est i ribelli in maggioranza composti dai gruppi del cosiddetto Esercito Siriano Libero, a ovest le forze governative. La guerriglia urbana tra case e palazzi non portò una delle due fazioni a imporsi sull’altra, così quello di Aleppo si trasformò presto in uno scontro di posizione, con entrambe le parti che investirono molte delle loro risorse nella battaglia tentando anche di tagliare le linee di rifornimento dell’avversario.
Quattro lunghi anni così: con le fazioni che combattevano strada per strada, la popolazione civile costretta alla fuga per non finire tra le decine di migliaia di morti, il prezzo più caro da pagare per questo confronto, e i bombardamenti aerei che hanno presto trasformato questa perla patrimonio dell’Unesco in un cumulo di macerie. Solo l’intervento dell’esercito russo nel 2016 riuscì a sbloccare una situazione che aveva ridotto entrambe le fazioni, e soprattutto i civili, allo stremo delle forze, permettendo alle forze di regime di riprendere i territori persi al costo di altre morti e devastazioni. Un epilogo che, dopo quattro anni di assedio, valse alla città l’appellativo di Stalingrado siriana.
Ma il pericolo jihadista non è mai scomparso, era lì vicino, nascosto, pronto a colpire di nuovo. È rimasto nelle cellule dormienti che non hanno mai abbandonato le città, oppure nel vicino governatorato di Idlib, a ovest, roccaforte della ribellione siriana rimasta sotto il fuoco degli eserciti di Mosca e Damasco. È rimasto anche a Nord, dove le milizie islamiste sostenute dalla Turchia continuano a compiere la loro mattanza contro la popolazione curda del Rojava, abbandonata al proprio destino dagli ex alleati occidentali. In mezzo, il devastante terremoto del 2023 che ha raso al suolo quel poco che la città conservava di integro. Oggi, il ritorno delle bandiere jihadiste di Hayat Tahrir al-Sham, il gruppo guidato dal famigerato Abu Muhammad al-Julani, ex leader qaedista del Fronte al-Nusra messo in ombra solo dall’incredibile ascesa dello Stato Islamico e del suo Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Sullo sfondo, le rovine di una Aleppo che non c’è più.