In piazza gli studenti, in piazza i professori. Giovani, vecchi. In Georgia, in queste ore, in piazza ci sono tutti. Tbilisi fa scintille: sono quelle dei petardi dei manifestanti, fuochi d’artificio esplosi contro gli scudi della polizia schierata che tenta di arginarli, ma non ci riesce. Nonostante idranti e manganelli, gas lacrimogeni sparati ad altezza uomo, non tornano a casa. Le proteste sono esplose nelle stesse strade che ne avevano ospitate già moltissime negli ultimi mesi. In otto città sono in corso manifestazioni, è bloccata la strada d’accesso al porto commerciale di Poti. A Kutaisi molte aule delle scuole sono vuote.
In un altro Stato ex sovietico la notte della rivoluzione si fa colorata: con le bandiere blu dell’Unione europea, con la bandiera bianca e rossa della patria sulle spalle, si protesta contro il partito di governo Sogno Georgiano che ha deciso di rimandare i negoziati di adesione all’Ue nel 2028. Ha innescato la miccia delle ultime proteste la stessa decisione che spinse gli ucraini, ormai più di dieci anni fa (era il novembre del 2013) a scendere in piazza: iniziò l’Euromaidan in seguito al niet del filorusso Yanukovich agli accordi d’entrata nella famiglia europea. La coincidenza ha scatenato valanghe di ricordi geopolitici in certe stanze dei bottoni: colori, fiamme, bandiere troppo simili per ingannare la memoria di chi ricorda il 2014 di Maidan.
A Mosca sembra un déjà vu e a confermarlo è stato proprio il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov: “Abbiamo visto eventi simili in diversi Paesi. Il più diretto parallelo che si può tracciare è con gli eventi di Maidan in Ucraina. Ci sono tutti i segnali di un tentativo per attuare la rivoluzione arancione”. Anche l’Ucraina, proprio come la nemica Russia, osserva e condanna la violenza delle forze dell’ordine contro i manifestanti: “Il governo georgiano dovrebbe smettere di intimidire il suo popolo con il mito del cosiddetto ‘scenario ucraino‘ e contemporaneamente implementare nella pratica uno scenario bielorusso”. Nella stessa dichiarazione il ministero degli Esteri di Kiev ha ricordato che anche dieci fa i politici ucraini dell’epoca rassicuravano sul fatto che si trattasse solo di una pausa e non di un abbandono del percorso europeo, proprio come dicono quelli di oggi in Georgia. L’Ue, vista da lì, Kiev e Tbilisi, è l’unica “chiave della stabilità, prosperità e rafforzamento delle istituzioni democratiche”.
Non solo Kiev e Mosca: da tempo sul futuro della Georgia molti leader fanno aleggiare lo spettro bellico toccato in sorte all’Ucraina. Nell’apprendere il risultato delle ultime urne che hanno assicurato il potere al partito che lo detiene da un decennio, tra i primi a congratularsi per “non essere diventati una seconda Ucraina” è stato l’ungherese Viktor Orbán. Proprio le cifre di quelle ultime votazioni – che sono state una scelta geopolitica più che l’espressione di una preferenza politica – hanno dimostrato che il Paese è spaccato a metà: metà vuole l’Ue sopra ogni cosa, l’altra rimane nell’orbita di Sogno Georgiano (raggruppamento equilibrista di populisti non perfettamente allineati a Mosca, ma nemmeno avversari).
La Coalizione per il cambiamento – l’ombrello d’opposizione che riunisce le forze nemiche dell’attuale esecutivo – ha denunciato l’arresto di uno dei suoi leader, Zurab Japaridze, fermato e portato via dalla polizia in passamontagna. In totale sono 200 gli arrestati, ma si tratta solo dell’ultima stima approssimativa che salirà nelle prossime ore. A benedire la protesta di Tbilisi c’è anche Ursula von der Leyen: l’Ue è con voi, la porta è aperta. Kaja Kallas, Alta rappresentante per la Politica Estera, in coro con la commissaria per l’allargamento Marta Kos, ha dichiarato che “l’annuncio segna un cambiamento rispetto alle politiche di tutti i precedenti governi georgiani e alle aspirazioni europee della grande maggioranza del popolo”.
Lo status di candidato ottenuto dal Paese nel 2023 era stato già però sospeso da Bruxelles in seguito all’approvazione di recenti emendamenti che, per le strade di Tbilisi, chiamano “leggi russe”: quella sugli agenti stranieri (che obbliga all’auto-denuncia le ong finanziate dall’estero) e quella sulla cosiddetta propaganda gay, già nota per essere in vigore in Russia.
Una voce più delle altre conta davvero nel blocco dei georgiani filo-europeisti: ad annunciare che questa “è la rivolta di un intero Paese” è stata la presidente Salomè Zourabichvili, eletta nel 2018 (primo capo di Stato donna del Paese), che fa da sempre da testa d’ariete pro-Bruxelles della piazza. Sabato la presidente ha annunciato in video che “è iniziato il movimento di resistenza”: la leader minaccia di non lasciare il suo posto il prossimo 29 dicembre (quando scadrà il suo mandato) se non verranno indette nuove elezioni . Salomè non dirà addio perché “le elezioni sono rubate. Non sono riconosciute da nessuno, ci confrontiamo con un regime che viola la legge costituzionale”.
La pioggia di critiche che in queste ore sta inondando il governo dello Stato ex sovietico sta diventando una marea che continua a salire e forse lo sommergerà. Il premier Irakli Kobakhidze – che ha promesso che “non sfuggiranno alle loro responsabilità nemmeno quei politici che si nascondono nei loro uffici e sacrificano membri dei loro gruppi” – nei giorni scorsi ha denunciato “manipolazioni” da parte di leader Ue, “ricatti vergognosi e offensivi” e ha escluso nuove elezioni: le ultime in cui Sogno Georgiano si è assicurato la vittoria sono state riconosciute come valide dall’Osce, nonostante la denuncia di numerose irregolarità. Ora promette che “una rivoluzione non ci sarà”. Il palazzo rimane sulle sue posizioni, lo stesso farà la piazza dove niente, sembra, disinnescherà il dissenso che continua a gonfiare le manifestazioni. Le strade non si svuotano, anzi: promettono di essere sempre più piene di ragazzi con la bandiera blu sulle spalle, in occhialetti da sub, per evitare il gas e le fiamme.