Remo Remotti non è mai stato un nome da accademia, né un artista da salotto borghese. Era concentrato di istinto e cultura, che entrava nella stanza e ti costringeva a prestargli attenzione, con quella voce roca, il sorriso beffardo e una vitalità che non conosceva limiti. Non era solo il poeta che se ne andava da quella Roma, né l’attore capace di rubare la scena con una battuta. Era un virus culturale che si insinuava ovunque, dalle gallerie d’arte ai set cinematografici, dai circoli avanguardisti alle osterie.

Nato cento anni fa, Remotti è stato tutto e il contrario di tutto: pittore, scultore, poeta, attore, uomo di mondo. Roma era il suo cuore pulsante, ma non la sua prigione. È impossibile parlare di Remotti senza parlare della Città eterna, quel palcoscenico contraddittorio che lui ha amato e odiato in egual misura. Roma lo ha nutrito e tradito, come una madre che non sa trattenere i suoi figli. E lui, da bravo figlio ribelle, se n’è andato. “Me ne andavo da quella Roma”, diceva nei suoi versi, ma poi, inevitabilmente, tornava sempre.

Si è chiusa ieri con ottimi numeri la mostra 100% REMOTTI organizzata per il centenario dell’artista. Tommaso “Piotta” Zanello, per l’occasione, ne ha rimusicato Me ne andavo da quella Roma, che non era solo una poesia, ma un manifesto di resistenza e appartenenza, un addio impossibile alla Città eterna che, come Remo, non si piega mai completamente, a nessuno. Zerocalcare ne ha disegnato la cover, in cui compare un Remo Remotti con cappello a larghe tese, occhiali e foulard. “Remotti – spiega Piotta – sfuggiva al politicamente corretto, e aveva un modo di fottersene che a me piaceva molto: non era mai volgare né violento, era provocatorio. Denotava la sua grande cultura ed esperienza. Ha studiato pittura, ha condiviso con Emilio Vedova gli studi a Berlino, poi con Renato Mambor a Roma, a frequentato avanguardie della pittura, del cinema, e aveva una umiltà che era un riferimento. Era un ribelle con una cultura profonda, un uomo che parlava con la stessa passione di pittura, cinema, politica e vita quotidiana. A volte sembrava che avesse vissuto cento vite in una, e forse è davvero così”.

“Nel mio ultimo lavoro, Una notte infame – mi spiega Piotta – racconto tanto della Roma delle subculture, della Roma underground degli anni Settanta e quella dei Novanta. E quindi cito varie figure di artisti come Viktor Cavallo, poeta, scrittore e attore, che purtroppo non ha ottenuto la notorietà e il successo che certamente meritava, o Amelia Rosselli, poetessa ed etnomusicologa che ha fatto parte della Generazione degli anni Trenta, insieme ad alcuni dei più conosciuti nomi della letteratura italiana. E poi l’immortale Remo Remotti, ed è il motivo per il quale la figlia Federica mi ha proposto questo omaggio al padre in occasione dei suoi 100 anni…”.

La mostra 100% REMOTTI a Roma ne ha celebrato non solo l’artista, ma l’uomo, il creatore di connessioni, il moderno cantore della città eterna. Nel videoclip di Me ne andavo da quella Roma (Reloaded) invece appaiono volti noti della cultura romana contemporanea: Carlo Verdone, Carl Brave, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Ditonellapiaga. È un cast che parla di memoria, ma anche di futuro, di quella capacità unica che ha Roma di essere mille cose diverse per mille persone diverse. “Volevamo che la scelta fosse ad ampio raggio – spiega Piotta – con esponenti sia del mondo della musica che del cinema, e anche dal punto di vista anagrafico: si va dal più grande che è Carlo Verdone alla giovanissima Ditonellapiaga”.

Piotta riconosce in Remotti una libertà creativa totale, una qualità rara in un’epoca dominata dalla paura di sbagliare o di essere giudicati. “Quando lo incontrai per la prima volta – racconta – mi diede subito l’impressione di parlare con un coetaneo. Mi disse ‘vi siete inventati questo rap romano, facciamo qualcosa insieme’… sbagliai a ragionare con la testa da ventenne, perché pensai che avessimo così tanto tempo davanti a noi quando invece Remo era già avanti con l’età…Con lui non c’era barriera, non c’era distacco, solo una curiosità sincera. Remo aveva un’incredibile modernità nel suo essere uomo che si riversava nel suo essere artista. Era una sorta di social network vivente, andava in giro con vari telefoni cellulari, creava reti di persone di tutte le età in maniera trasversale, era moderno, più avanti rispetto ai suoi contemporanei e di conseguenza anche la sua arte lo era. Duratura, ma ti direi eterna”.

Roma, per entrambi, è il fulcro di ogni discorso. In Mamma Roma addio, Remotti lancia un grido di ribellione contro la stagnazione e le banalità della Città eterna. Piotta, riprendendo il brano, si trova a confrontarsi con lo stesso dilemma: amare o odiare Roma? La risposta, però, è sempre nella contraddizione. Roma è una madre difficile, da cui si tenta di scappare, ma alla fine si torna sempre. Come ricorda Piotta, “alla fine, ‘me ne andavo da quella Roma’, sì, però se Remo a 90 anni è morto a Roma e come dice lui nel finale, ‘poi a Roma so’ tornato’. Nessuno riesce ad andar via veramente.

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