Manca di poco il sold out la tappa calabrese, quella del 30 novembre, del Dragon Tales Tour di Robben Ford e del suo quartetto stellare: Darryl Jones, Larry Goldings e Gary Husband gli altri stratosferici musicisti che viaggiano col fondatore dei Yellowjackets su e giù per l’Italia. E poi c’è lui, l’uomo che ha da poco imbracciato una nuovissima Fender Stratocaster al solo scopo di rendere onore e gloria a una delle divinità della chitarra elettrica, uno dei leggendari big four britannici della sei corde, Jeff Beck.

Tutto nasce da lui, in questo nuovo tour che riporta Ford in terra italica e in particolare a chiudere la 23esima edizione del Peperoncino Jazz Festival, uno dei più importanti festival jazz italiani, capace quest’anno di ben 42 concerti e di tornare per la quarta volta di fila a New York con concerti tra storici teatri come la Town Hall e centri di assoluto prestigio come l’Istituto Italiano di Cultura e lo Spring Place: condirettore artistico, assieme allo storico Sergio Gimigliano, un newyorkese d’eccezione ma con solidissime origini calabresi, John Patitucci.

Incessanti temi e motivi rimbalzano tra la sei corde di Ford e il quattro corde di Jones, il bassista di leggende del pop/rock come Madonna e i Rolling Stones. Un musicista giunto tanto in alto nello star system da subire le controindicazioni della fama: quanto costerà? È così che per interi periodi, non osando nessuno chiamarlo col timore di sentirsi sparare cifre spropositate, Jones, tra un tour e l’altro con gli Stones, è rimasto tragicomicamente a casa. A non aver nessuna paura di rimetterlo letteralmente in pista è invece Ford, che dalla sua ha collaborazioni con alcune delle più grandi personalità della musica dell’ultimo mezzo secolo e che dopo averlo già coinvolto, ben nove anni or sono, in una super band tributo a Miles Davis, Miles Smiles, oggi lo ha nuovamente trascinato nel paese che dice di amare di più al mondo, il nostro: per il cibo, per il clima, per la gente.

Qui Ford si sente letteralmente a casa, ed era infatti felice come un bambino già dalla press conference che ha tenuto coi giornalisti italiani prima di spiccare il volo e riportare la sua musica nel Bel Paese. E la sua musica è più acida che mai, un blues che graffia le orecchie, che scortica la pelle quando non lascia spazio a un istinto melodico che il chitarrista porta nel suo bagaglio dei talenti fin dalla più giovane età, quella in cui già 22enne solcava i palchi di Joni Mitchell e ad appena 23 festeggiava il compleanno in tour con George Harrison. Un lirismo che affonda le sue più profonde radici nell’iper espressivismo di decadi come gli sperimentali Settanta o i ruggenti Ottanta, in cui il virtuosismo strumentale trovava nella fusion e in tutti i suoi rivoli la vera tana del bianconiglio.

Splendida, tra le cover di Beck, Goodbye pork pie hat, che si trasforma tra le mani di Ford e dei suoi prodi compagni in un totem sonoro di unica e inafferrabile statura. Il protagonismo della sua Fender Stratocaster è assoluto, e il fior fiore dei musicisti al suo seguito, musicisti con la M faraonica, senza batter ciglio lasciano che sia così, che il quasi 73enne chitarrista californiano abbia l’occhio di bue puntato costantemente addosso, in un interminabile dialogo fra sé e il pubblico, fra sé e la storia del blues, fra sé e l’intero manuale della tecnica chitarristica. E se Ford non ne sbaglia una, Jones, nei suoi rari ma preziosissimi soli, è un florilegio di idee, intuizioni, soluzioni, sentenze: il blues più nero, con più groove, più espressivo, brillante e creativo che si possa ascoltare su un basso elettrico da qualche decennio in qua. E poi arriva lei, senza preavviso alcuno giunge lei, bellissima e del tutto inattesa: Jealous guy di John Lennon, che Ford canta come fosse un sedicenne innamorato per lasciar poi gridare la sua chitarra in variazioni e improvvisazioni che perfettamente esprimono la disperazione di un uomo intento a chiedere scusa, a farsi perdonare dall’intero genere femminile.

Il tutto è ritmicamente, perfettamente, chirurgicamente scandito da quella macchina da guerra che risponde al nome di Gary Husband, un signor batterista che nel suo unico vero solo dell’intero concerto riesce a inanellare un crescendo di tale tensione e portata da trascinarsi dietro l’intero Cinema Garden di Cosenza. Un pubblico, quello cosentino, tanto caldo, partecipato e appassionato da risultare, a piccoli tratti, irritante, con uno sparuto pugno di soggetti, paradossalmente piazzati in prima fila, che in più di un’occasione, certo inconsapevoli di avere di fronte veri e propri pezzi di storia musicale, si lancia in grida, balli e surreali tarantelle a cui le facce dei musicisti, basite sul finale, tristemente fanno da contraltare. Per il resto, per tutto il resto, per i musicisti, l’organizzazione e la quasi totalità dei presenti, un grande evento, un momento di rara bellezza musicale.

Photo credits: Fabio Orlando

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