Leggendo parte della stampa nostrana, pare che i jihadisti di Hts siano apparsi dal nulla e, sempre dal nulla, siano riusciti a conquistare la seconda città della Siria: Aleppo. Ma la storia è ben diversa. Esistono infatti diversi livelli di lettura.
La prima è quella locale, cioè di un conflitto che va avanti dal 2011 e che, dal 2020, era giunto a una sorta di pax voluta dagli attori regionali che muovono le pedine sullo scacchiere mediorientale. Questo accordo, siglato ad Astana da Russia, Iran, Turchia, regime siriano e ribelli, prevedeva di lasciare in mano al variegato fronte dell’opposizione la regione di Idlib e parte del nord della Siria. Al tavolo, seduti in un angolo, c’erano poi i curdi dell’Ypg, emanazione degli interessi americani in questa fetta di Mesopotamia ormai frantumata in mille rivoli. Da quel momento, i jihadisti di Hts erano diventati la forza principale all’interno del fronte armato dell’opposizione, questo perché sostenuti da paesi del Golfo e, in parte, sicuramente dalla Turchia.
Ma parlare di una forza commisurata al quantitativo di armi in possesso significherebbe non tenere in conto la forza dell’ideale che ha spinto questi fondamentalisti a guidare una controffensiva che ha scongelato una guerra ormai da tutti dimenticata. Questi uomini, guidati da Abu Mohamad al Jolani, sono siriani, aleppini, damasceni e di un’altra infinità di località. Sono giovani nati e cresciuti in un contesto di guerra che li ha condotti inesorabilmente al fondamentalismo. Non hanno aspirazioni internazionali, come le aveva il Califfato dell’Isis che, invece, mirava ad un progetto mondiale ed era in gran parte composto da terroristi internazionali provenienti dal cuore dell’Europa. E’ bene sottolineare questo fatto per riuscire ad osservare una gradazione fondamentalista differente. Come differenti sono le parole con cui si è (ri)presentato al Jolani: non toccheremo civili, sosterremo le minoranze e vogliamo la libertà dalla dittatura. Insomma, un registro dialettico differente, quello di Hts, che mira a trasformarsi in un interlocutore sul nuovo tavolo che si sta già aprendo.
E’ qui infatti che si presenta la seconda lettura, quella della guerra per procura. Bisogna infatti osservare gli ultimi accadimenti come un gioco di pressioni in cui, questa volta, a perdere terreno è il fronte composto da Iran e Russia – entrambi i paesi coinvolti in altre crisi, Gaza e Ucraina –, ora a corto di mezzi e uomini. I pasdaran e le migliaia di soldati russi che dal 2015 presidiavano i territori controllati da Assad sono scomparsi da tempo, dislocati in altre parti di questa guerra mondiale a pezzi. La diminuzione degli aiuti militari russi e iraniani, il contesto della guerra a Gaza, dei raid israeliani, insieme alla frammentazione dell’esercito siriano in milizie paramilitari, queste ultime più occupate a gestire il traffico di captagon che il territorio, ha fatto il resto.
In questo momento, in Siria a vincere non sono gli ideali con cui era cominciata la rivoluzione del 2011, ma è l’avanzamento degli interessi di un asse regionale e mondiale contro la parte opposta. Assad è ancora lì, a fare il burattino del Cremlino, e cercare di riprendersi Aleppo radendola al suolo.