L’autonomia differenziata non dev’essere un “fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale”, ma “uno strumento al servizio del bene comune e della tutela dei diritti”. D’altra parte, “il popolo e la nazione sono unità non frammentabili: esiste una sola nazione così come vi è solamente un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei “popoli regionali” titolari di una porzione di sovranità”. In base alla Costituzione, quindi, è vietato interpretare l’autonomia secondo “una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici”, o attribuire nuove competenze alle Regioni in base a “valutazioni meramente politiche“. In poche frasi, la Corte costituzionale polverizza il nucleo ideologico della riforma, pensata dal ministro degli Affari Regionali Roberto Calderoli come un tributo al sogno leghista delle origini: la rivincita del Nord operoso sul Sud parassita e Roma ladrona.
Il ddl, infatti, avrebbe voluto consentire alle Regioni più ricche di ottenere la gestione completamente “privata” di un massimo di 23 materie – dall’istruzione alla protezione civile alla tutela della salute – sulla scorta di apposite intese da raggiungere con il governo. Per farlo si appellava all’articolo 116 della Carta, che consente alla legge di attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie” di competenza statale. Nelle motivazioni della sentenza con cui ha dichiarato illegittime le parti centrali del testo, però, la Consulta ha rimproverato a Calderoli di non aver capito bene quella norma: l’espressione “concernenti le materie” implica infatti che il trasferimento di competenze non possa riguardare intere materie, ma al più singole funzioni al loro interno. Ad esempio, non si può dare alle regioni carta bianca sull’istruzione tout court, ma solo – per dire – sul sistema di valutazione degli studenti.
Soprattutto, scrive la Corte usando il latino, queste scelte vanno fatte “non ex parte principis, bensì ex parte populi“: non in base a ciò che fa più comodo alla politica, ma a ciò che risponde meglio agli interessi collettivi. L’articolo 116, infatti, “va interpretato coerentemente” con un cardine della forma di Stato italiana, il principio di sussidiarietà: le funzioni pubbliche devono in linea di principio, essere svolte al livello più vicino ai cittadini, ma non se l’ente di livello superiore è in grado di svolgerle meglio. E questa valutazione non la può fare il governo a tavolino e con l’accetta, spostando di qua e di là le materie a suo piacimento: il principio di sussidiarietà, si legge nella sentenza, “esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo. La sussidiarietà funziona, per così dire, come un ascensore, perché può portare ad allocare la funzione, a seconda delle specifiche circostanze, ora verso il basso ora verso l’alto”, a seconda di qual è, nel caso specifico, il “modo migliore per realizzare i principi costituzionali”. A maggior ragione, quindi, “poiché il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza, esso non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie”.
La Corte ricorda che la devolution di competenze alle Regioni “può comportare la crescita, anche accentuata, delle diseguaglianze, a causa della diversa distribuzione territoriale del reddito nonché per effetto delle diverse capacità amministrative nelle regioni, che possono determinare una differenziazione territoriale nel livello di tutela dei diritti. Pertanto esiste un trade-off“, uno scambio, “tra autonomia regionale e eguaglianza nel godimento dei diritti, rispetto al quale deve essere trovato un ragionevole punto di equilibrio, attraverso idonei meccanismi correttivi delle disparità, evitando conseguenze negative in termini di diseguaglianze”. Ancora: “Poiché si tratta di una deroga alla ordinaria ripartizione delle funzioni, essa va giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta. L’iniziativa della Regione e l’intesa previste dalla suddetta disposizione costituzionale devono, pertanto, essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”. Tutte cose che la riforma Calderoli non prendeva in considerazione. In teoria il governo può riscrivere il testo tenendo conto delle indicazioni della Consulta, ma data la differenza di punti di vista, non è escluso che ci rinunci.