Erano 44 anni che in Corea del Sud non veniva dichiarata la legge marziale. L’ultima volta risale al maggio 1980 a seguito del colpo di Stato militare, il secondo in un anno, guidato alla fine dell’anno precedente dal generale Chun Doo-hwan. Per fermare le manifestazioni del movimento studentesco che chiedeva riforme democratiche, il 17 maggio Chun costrinse il governo a estendere la legge marziale sull’intero Paese. Vennero chiuse le università, vietate le attività politiche e limitata ulteriormente la libertà di stampa dopo l’uccisione del dittatore Park Chung Hee, assassinato dal suo amico Kim Jae-gyu, presidente del National Intelligence Service e capo del suo servizio di sicurezza.

Il 18 maggio i cittadini di Gwangju si ribellarono alla dittatura militare e presero il controllo della città. Chun inviò i soldati a reprimere la rivolta e alla fine si contarono diverse centinaia di morti, ma c’è chi parla di migliaia di vittime. L’evento rimane un capitolo traumatico e controverso della storia del Paese, che aveva già vissuto la legge marziale durante la guerra di Corea e sotto lo stesso Park, che era arrivato al potere nel 1961 con un golpe.

Gli ultimi anni della legge marziale coincisero con la transizione democratica del Paese alla fine degli anni Ottanta. Le proteste di massa del 1987, note come Rivolta Democratica di Giugno, costrinsero il regime militare ad adottare una costituzione più democratica e a indire elezioni presidenziali dirette. Il movimento pro-democrazia è riuscito alla fine a realizzare riforme politiche significative, assicurando che la legge marziale non sarebbe più stata adottata dal governo sudcoreano e relegandola a retaggio del passato autoritario.

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