Si è concluso con la condanna all’ergastolo il processo a Filippo Turetta per l’assassinio di Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre del 2023 a Fossò, vicino a Padova. La Corte d’Assise di Venezia ha accolto la richiesta del pubblico ministero Andrea Petroni, riconoscendo la premeditazione ma non le aggravanti dello stalking e della crudeltà. Per capire meglio si dovranno aspettare le motivazioni della sentenza che ha stabilito la pena massima per Filippo Turetta.

Che cosa resta, ora? Il femminicidio di Giulia Cecchettin, un anno fa, ha scosso l’opinione pubblica profondamente, senza lasciare spazio al sospetto che investe, spesso, le vittime di femminicidio. Secoli di esercizio della violenza misogina, giustificata e alimentata dalle religioni, legittimata dai codici, sono state un veleno che ha assuefatto società e intere generazioni alla violenza maschile e alla tolleranza di sofferenze inflitte alle donne e alle bambine. La violenza contro una donna viene letta ancora come conseguenza di un errore commesso dalle vittime, qualche trasgressione ad un codice morale o l’imprudenza di sfidare l’ira di un uomo con l’offesa al suo amor proprio. Come se la violenza maschile fosse qualcosa di immutabile con la quale le donne devono saper convivere. Quanti vademecum sono stati scritti rivolgendosi alle donne? Quanti rivolgendosi agli autori?

Questa lettura della violenza maschile contro le donne non è qualcosa di arcaico che abbiamo archiviato insieme ad un patriarcato che alcuni credono morto e defunto con la riforma del diritto di famiglia nel 1975. E’ una convinzione strisciante in una buona parte della società, ancora oggi. Lo sentiamo nell’aria quel pregiudizio, ogni volta che una donna viene violata, aggredita o uccisa. Lo ascoltiamo sui treni, dalle parole di amici e conoscenti, lo leggiamo nei titoli di alcune testate e anche in alcune sentenze. Nonostante decenni di politiche femministe, i pregiudizi resistono ancora, ma con Giulia è stato diverso. L’eco della domanda “Sì ma lei che cosa ha fatto?” (o cosa non ha fatto?) si è infranta su questa ragazza acqua e sapone, di appena 20 anni, che ha reso difficile la resistenza di un ottuso pregiudizio. Giulia si stava per laureare brillantemente in ingegneria, era appassionata di fumetti per bambini, in lei moltissimi hanno visto una nipote, una figlia, una sorella. La sua morte ha commosso anche per questo. Molti hanno capito che la violenza nelle relazioni di intimità può colpire qualunque donna, che non si devono cercare colpe nelle vittime ma solo le responsabilità degli autori o chiedersi cosa porti ancora molti uomini, anche ragazzi giovanissimi, a commettere prevaricazioni nei confronti delle donne.

Nel processo è stato anche molto evidente per tutte e tutti che l’uccisione di Giulia, come tutti i femminicidi, sia stato l’esito finale di una lunga serie di vessazioni e violenze. L’assunzione del controllo totale nel momento in cui lei dice basta!

Ce lo ha detto la stessa Giulia Cecchettin, dalle pagine del suo diario, nel lungo elenco di motivi che aveva fissato con l’inchiostro, quando aveva deciso di chiudere una relazione asfissiante, fatta di controllo e di richieste continue, imposte anche attraverso decine di messaggi nel cellulare, senza lasciarle tregua e respiro. Filippo Turetta voleva cancellarne l’identità facendone una cosa totalmente sua, occuparne qualunque spazio vitale, controllarne ogni movimento, esigendo come un sovrano assoluto che al centro di quella relazione esistessero solo i suoi bisogni. Esisteva lui e solamente lui. Una serie di ricatti morali e minacce di suicidio, che facevano di Giulia un ostaggio. Mi ha colpito leggere in un articolo, pochi minuti fa, che Filippo Turetta aveva messo una foto di lei sul cambio dell’auto sulla quale stava fuggendo, come se volesse tenere Giulia in pugno anche dopo la morte.

Gino Cecchettin dopo la sentenza ha parlato di una sconfitta per tutta la società: “Non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri o domani. È una sensazione strana, pensavo di rimanere impassibile. È stata fatta giustizia, la rispetto, ma dovremmo fare di più come esseri umani. La violenza di genere va combattuta con la prevenzione, con concetti forse un po’ troppo lontani. Come essere umano mi sento sconfitto”. Quest’uomo e la figlia Elena hanno avuto la forza di portare all’attenzione dell’opinione pubblica la denuncia di un fenomeno che va combattuto socialmente. Elena Cecchettin dopo la morte della sorella aveva parlato di femminicidio e di patriarcato, Gino Cecchettin dopo un anno ha creato una fondazione.

Ma insieme alla commozione collettiva c’è stata anche la rancorosa reazione di chi si è sentito infastidito e irritato dalla loro denuncia. Gli attacchi, feroci, si sono fatti sentire sui social dandoci uno spaccato di quanto sentir parlare di violenza maschile e patriarcato susciti rancore, dimostrando quanto sia ancora vitale una cultura che un ministro della Repubblica crede sia morta e sepolta.

@nadiesdaa

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