Incontrai Iole Mancini il 20 febbraio 2024, il giorno dopo il suo ultimo compleanno. La sua casa, alla Balduina, era piena di lettere, omaggi, biglietti con ringraziamenti, piante, scatole di cioccolatini, una targa da parte del Presidente del Municipio e un’altra della scuola che 24 ore prima aveva deciso di festeggiarla con una torta con 104 candeline. Ma soprattutto, ovunque c’erano garofani rossi. In vasi, anfore, brocche, bottiglie dal collo largo.

Un trionfo di rosso e di garofani. L’esplosione di una vita di lotta che aveva attraversato un secolo.

Quindici giorni prima avevamo fissato l’appuntamento per l’intervista che stavo per realizzare. Al telefono mi aveva chiesto di aspettare, devo prendere il mio quaderno e scrivermi – aveva detto – il suo nome, il suo cognome e il suo telefono. E poi per chi lavora. Mi sarebbe piaciuto incontrarla il giorno stesso, lei ci aveva pensato un po’ e poi mi aveva spiegato, potrebbe essere un giorno molto intenso e la sera sarei stanca. Giusto, pensai.

Entrai dentro casa sua come si entra in un luogo di culto. Da subito sentii la forza di un passato vissuto con così tanta forza, che persi il senso del tempo. Ma fu quando lei si aprì con me che io mi resi conto di essere davanti a uno degli ultimi monumenti della storia d’Italia. Il mio silenzio di fronte al suo racconto non era solo rispetto, ma anche ringraziamento al coraggio con cui visse e sacrificò la sua esistenza per garantire a un popolo intero la libertà di pensare e di vivere.

Lo penso ancora di più oggi, mentre le guerre che impazzano nel mondo raccontano di popoli oppressi, di silenzi complici, di connivenze colpevoli. Di mancato coraggio a imporre uno stop.

Ultima testimone degli orrori di via Tasso e delle Fosse Ardeatine, fu solo per uno scarto di tempo dovuto al guasto di uno dei camion che l’avrebbe condotta a essere giustiziata che Iole Mancini rimandò l’appuntamento con un destino che evidentemente non era il suo.

Il resto, dall’abominio della guerra ai soprusi della dittatura, sopportò tutto. Compreso il carcere di via Tasso (“entravi ma non uscivi”, mi disse) e le torture da parte di Erich Priebke per sapere dove fosse nascosto il marito, Ernesto Borghesi. “Non ho mai parlato – mi disse guardandomi negli occhi – mai. Significava condannarlo a morte e tradire tutta la mia famiglia”. Entrambi, Iole e Ernesto, partigiani nei Gap e combattenti contro i nazifascisti nella Roma occupata.

Mi inoltrai con lei in un vicolo di strade della memoria percorse senza la minima esitazione. Gli occhi leggermente annacquati dall’età erano lucidi, vispi, scattosi. Intenzionati a pareggiare i conti con una vocalità non incerta ma rallentata dagli anni, “parlo lentamente, mi dispiace tanto perché non riconosco la mia voce, cantavo benissimo”. Ma gli occhi non facevano sconti. Sembrava volesse cogliere l’oggi con la furia dello sguardo che incastona i fatti. Tutti me li snocciolò, quelli di un oggi che non le piaceva, “Bisogna essere degni di sedere in Parlamento”. Velocità di pensiero la sua, e velocità di movimento. Da un momento all’altro era scomparsa, con un passo senza incertezze.

“Vieni qui”, mi disse tornando indietro e facendomi segno dalla porta. Mi alzai, la raggiunsi, mi prese per mano. Non me l’avrebbe lasciata per gran parte del tempo trascorso insieme, “vieni qui che devo presentarti un altro mio grande amore”: mi porta nella sua camera da letto. “Ma lei vive sola oggi?”. “Certo, mi rifaccio anche il letto, guarda qui”. E mi indicò i quadri, uno dopo l’altro. Me li spiegò tutti, uno per uno: “Sono di Peikov”. Ilia Peikov, pittore bulgaro. Iole lo aveva conosciuto nel ‘67. Non si sposarono mai, non potevo rischiare che lui non mangiasse, mi disse, i suoi quadri non sempre si vendevano. E con la mia pensione sommata alla reversibilità di Ernesto abbiamo vissuto in due. “Si può anche scegliere come vivere insieme, sai?”, mi fissò e proseguì “Io e Peikov siamo stati più che sposati”.

Ci mancherai, Iole, e in questo momento più che mai.

Ma la sorpresa più grande fu sapere che cosa erano state in grado di fare le sue mani, belle ancora, lunghe, con le dita affusolate. Mi portò davanti a una scultura, l’ho fatta io, la indicava con fierezza. Rimasi stupita, se ne accorse. “Sì, l’ho fatto io, anche questo busto”. Opere perfette, lineamenti delicati.

Iole, donna immensa, capace di trasferire l’arte sua propria (era stata una magistrale sarta, lavorò per importanti case di moda, anche con Valentino) in uno stile di vita. Per questo, sicuramente per questo, si era circondata di figure elevate.

Fu in quella camera da letto, tra la sua arte, davanti alle tele del suo secondo uomo, di fronte alla sua ostinazione che andava oltre la stanchezza di quattro ore di memoria riportata a galla con doloroso coraggio, che capii che stavo avendo la fortuna sfacciata di essere nel luogo sacro e intimo di un animo alto. E di condividere con lei il suo tempo, quello passato e quello contemporaneo. Soprattutto, condividevo con lei l’oggi, la storia attuale.

Mi disse molto, Iole, in quella lunghissima mattinata passata insieme. “Tu oggi puoi lavorare, vestirti, muoverti, circolare liberamente. Tutto questo ha avuto un prezzo, non sperperarlo”. Mi avvertì accoratamente sull’importanza di difendere la libertà che sembra eterna e che invece non è scontata e, soprattutto, sulla necessità di non fare passi indietro sui diritti acquisiti”. Nell’intervista ho potuto far confluire solo un decimo del suo grande e attualissimo messaggio. Si decise di realizzarla per il 25 aprile, dovetti fare delle scelte e rinunciai a tutto il dialogo che facemmo sulla questione femminile, sulla violenza contro le donne. Le sue idee come pietre.

Oggi penso che sia stato meglio così.

Trattengo per me, senza dover ridurlo per esigenze di tempo, un tesoro inatteso ricevuto in dono da una modernissima ragazza di 104 anni grazie alla quale le donne, oggi – se vogliono – possono decidere per sé e per il loro futuro. Mi blocco di colpo, autoimpongo un fermo al mio ragionamento. Non è vero, ancora non è così. Non tutte le donne oggi possono decidere per il loro futuro, non ancora. La privazione delle libertà passa attraverso canali diversi.

Un regalo me lo fece, Iole Mancini, la certezza assoluta che non avrei smarrito né disonorato l’eredità lasciata da una grande combattente come lei.

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