La decisione sul destino dell’avventura coloniale in Albania non dovrebbe arrivare subito. La Cassazione terrà udienza mercoledì 4 dicembre, si prenderà comunque qualche giorno e gran parte degli addetti ai lavori prevede che sospenda il giudizio sui Paesi sicuri, cioè sulla possibilità per il governo di trattenere (ovvero rinchiudere) in Albania i richiedenti asilo solo perché provenienti Paesi ritenuti sicuri e di esaminare le loro domande con la procedura accelerata (sommaria), quindi di rimpatriarli. La sospensione durerebbe fino alla pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea, alla quale si sono già rivolti i Tribunali di Roma, Bologna e Firenze.
A Lussemburgo l’udienza è stata fissata per il 25 febbraio, dunque a breve, e la decisione dovrebbe arrivare ad aprile. Fino ad allora i centri costruiti dal governo Meloni al porto di Shengjin e a Gajder dovrebbero rimanere vuoti, infatti il personale italiano è stato quasi tutto rimpatriato per non far lievitare ulteriormente le spese di un’operazione già molto costosa, utile soprattutto a fini propagandistici. Rischia di concludersi con un clamoroso fallimento dopo che ci hanno portato appena venti persone e poi le hanno riportate in Italia. E infatti già si cominciano a ipotizzare impieghi alternativi delle strutture albanesi.
La sospensione in attesa della decisione della Corte Ue è stata chiesta anche dalla Procura generale della Cassazione, con una memoria a firma dei sostituti procuratori generali Luisa De Renzis e Anna Maria De Renzis, che lascia più di uno spiraglio alle tesi del governo senza però arrivare a sollecitare i giudici a cassare la mancata convalida dei trattenimenti in Albania. La questione è ormai nota, bisogna decidere se Paesi come il Bangladesh, l’Egitto o la Tunisia possano essere considerati “sicuri”, ai sensi della direttiva Ue 2013/32 e del diritto comunitario sull’asilo, anche quando vi sono rischi di persecuzioni e violazioni dei diritti fondamentali di specifiche categorie di persone come gli oppositori politici, gli appartenenti a minoranze varie o gli omosessuali. Il governo italiano ha fissato un elenco di ben 22 Paesi, prima con decreto ministeriale e poi con decreto legge, ma l’una e l’altra soluzione sono state bocciate dalle sezioni specializzate per l’immigrazione del Tribunale di Roma e da quelle di altre città. Così il governo ha deciso di trasferire la competenza alle Corti d’appello, una scelta per lo meno irrituale che va anche a gravare su uffici alle prese con un assai consistente arretrato.
Secondo l’Allegato I della direttiva “un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. La Corte di Giustizia Ue ha già stabilito, con una sentenza del 4 ottobre scorso sul caso di un moldavo che la Repubblica ceca intendeva rimpatriare, che un Paese non è sicuro se parte del territorio non lo è (il problema era la Transnistria per lo più russofona), ma non è stata altrettanto esplicita sulle categorie di persone che corrono particolari rischi. Almeno così la vede il governo, perché secondo il Tribunale di Roma il principio è lo stesso: o il Paese è sicuro per tutti o per nessuno.
All’esame della prima sezione civile Cassazione, presieduta dal giudice Alberto Giusti, c’è il ricorso del ministero dell’Interno contro la mancata convalida dei primi 12 trattenimenti di bangladesi ed egiziani in Albania. Il Tribunale di Roma, secondo il Viminale, avrebbe “travisato il contenuto e la portata della sentenza del 4 ottobre” e “completamente omesso di indicare le ragioni in fatto che hanno condotto ad affermare che il Paese di origine non fosse sicuro”. Sostengono la tesi opposta gli avvocati Fabrizio Alfieri, Salvatore Fachile, Loredana Leo e Arturo Salerni dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione: “Il giudice di primo grado correttamente ha ritenuto la designazione dell’Egitto come Paese sicuro in contrasto con la normativa europea”. L’udienza del 4 dicembre del resto era già fissata per l’esame di un ricorso pregiudiziale del Tribunale di Roma, promosso a giugno sul caso di un tunisino che chiedeva di sospendere il rifiuto della protezione internazionale disposto “per manifesta infondatezza” dalla commissione prefettizia per via dell’inserimento del suo Paese nella lista di quelli “sicuri”, che il governo ritiene insindacabile da parte della magistratura.
Vedremo cosa diranno la Cassazione e da qui ad aprile la Corte di Lussemburgo. Ci si attende la conferma che le richieste d’asilo devono essere esaminate tutte caso per caso. Del resto lo dice anche la memoria della Procura generale della Cassazione: “Nell’ambito del giudizio di procedura accelerata, se la Corte Ue dovesse ritenere compatibile con la nozione di Paese sicuro la previsione di esenzioni soggettive, l’onere di allegazione da parte del ricorrente (….) circa l’appartenenza ad una delle categorie ‘protette’ non potrà certo essere ignorato. Ed allora il giudice, sulla scorta delle indicazioni fornite dal richiedente (…) sarà tenuto, con valutazione individualizzante, ad esplicitare le ragioni per le quali il Paese non può ritenersi sicuro e ad indicare le fonti del suo convincimento”. Nella procedura accelerata, in realtà, non è così semplice.