Quaranta miliardi di euro. È la cifra che dovrebbe essere riversata nella sanità pubblica per far sì che l’Italia raggiunga i livelli di investimento degli altri Paesi europei. Una voragine causata da decenni di sottofinanziamento che hanno comportato un abbassamento della qualità della vita della popolazione. Nonostante l’Italia abbia una delle aspettative di vita più alte del mondo (82,8 anni), infatti, la speranza di vivere la vecchiaia in buona salute è bassa, con delle differenze scioccanti tra le diverse regioni. Chi nasce a Bolzano, in media, vive in buona salute per oltre 66 anni. Per i connazionali che vivono a Potenza, invece, la speranza di vita in buona salute scende addirittura sotto i 53. E nei prossimi anni la situazione potrebbe peggiorare, vista l’incapacità del welfare pubblico di prendere in carico i bisogni della seconda popolazione più anziana del mondo. Negli ultimi vent’anni – durante i quali la percentuale di spesa sanitaria rispetto al Pil è rimasta ferma al 6,3% – la popolazione italiana over 65 è cresciuta, fino a raggiungere il 24% del totale dei cittadini. Di questi 14,4 milioni di anziani, circa quattro milioni non sono autosufficienti e necessitano di assistenza quotidiana. Ma il welfare pubblico riesce a prenderne in carico solo uno su tre, lasciando che degli altri se ne debbano occupare le loro famiglie. Al problema demografico, inoltre, si aggiungono quello dell’aumento dei malati cronici – il 41% dei residenti – e della povertà sanitaria. E ancora una volta è il Sud a versare nelle condizioni più gravi.
È quanto emerge dall’edizione 2024 dell’Osservatorio sulle aziende e sul Sistema sanitario Italiano (Oasi), pubblicato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) di Sda Bocconi School of Management, presentati il 3 dicembre, nell’aula magna dell’università Bocconi di Milano. La 25esima edizione del rapporto fotografa una situazione drammatica per il Ssn. La conclusione principale del report è che serva trovare un equilibrio tra risorse disponibili, aspettative della popolazione e bisogni di salute del Paese. Allo stato attuale, infatti, è impossibile salvaguardare l’universalismo garantito sulla carta dall’articolo 32 della Costituzione. Il Ssn italiano è da decenni tra i meno finanziati in Europa, per una cifra oggi pari al 6,3% del pil, contro il 9-11% di Francia, Germania e Regno Unito. Dando come assodato questo sottofinanziamento, che potrebbe essere risolto solo con un investimento pubblico attorno ai 40 miliardi, per il rapporto è necessario governare le aspettative dei cittadini, dichiarando senza mezzi termini cosa il servizio pubblico sia in grado di garantire e cosa no. D’altronde, nei prossimi anni non ci saranno grandi stravolgimenti finanziari: il piano strutturale di bilancio fissa l’incidenza percentuale della spesa sanitaria pubblica ancora al 6,3% del pil per il 2025, e addirittura al 6,2% nel 2026 e nel 2027.
Anche i consumi sanitari privati sono costanti rispetto agli anni passati. Il rapporto tra spesa sanitaria privata delle famiglie e pil è stabile al 2,2%. Ma l’aumento delle spese ambulatoriali amplifica la percezione di una crescita dei consumi privati. Le disuguaglianze nel Paese sono in ogni caso evidenti. Molti cittadini, non ricevendo risposte dal pubblico, sono costretti a trovarsi da soli una soluzione nella sanità privata (allarmante il dato sulla salute mentale: degli 8,5 milioni di pazienti trattati con antidepressivi e antipsicotici solo 0,8 milioni sono presi in carico dai centri di salute mentale del Ssn). E chi non ha le possibilità economiche ha due strade. O rinuncia alle cure o si impoverisce ulteriormente: nel 2023, l’8,5% delle famiglie è stata costretta ad affrontare spese sanitarie catastrofiche, ovvero costi che le hanno portate sotto la soglia di povertà o che hanno rappresentato una parte rilevante del loro budget. Di queste famiglie fiaccate da gravose spese sanitarie, il 64% è rappresentato da nuclei appartenenti al quintile più povero. Per loro la spesa più pesante è quella per i farmaci, il cui acquisto non è garantito gratuitamente dal Ssn. Inoltre, tra le famiglie costrette a spese catastrofiche, il 48% vive in regioni meridionali e il 43% ha un pensionato come persona di riferimento.
Il rapporto sottolinea la necessità di mettere ordine nel sistema: non potendo garantire i servizi a tutti, questi devono essere offerti prima a chi ne ha più bisogno. Attualmente l’accesso alle prestazioni sanitarie segue spesso criteri casuali, risultando inefficace e poco equo. Per citare un dato, il numero di anziani cronici in buona salute si riduce della metà passando da chi possiede una laurea e a chi invece ha solo una licenza elementare. Anche l’analisi della distribuzione sul territorio evidenzia molte disuguaglianze: i consumi delle stesse prestazioni sanitarie possono variare fino al 100% tra aree simili all’interno della stessa regione.
Uno dei principali problemi evidenziati dal rapporto è il significativo divario tra quanto viene prescritto dai professionisti e la disponibilità reale del sistema di erogare prestazioni. Il Ssn prescrive molto di più rispetto alla sua effettiva capacità erogativa e questo non fa che disperdere le poche risorse disponibili e dilatare i tempi delle già lunghe liste d’attesa. Il risultato è che il sistema universalistico del nostro Ssn resta solo sulla carta, riversando sul cittadino, con la sua rete e le sue risorse, l’onere di ottenere in tempi accettabili le prestazioni di cui necessita. Un sistema che comporta numerose disuguaglianze e che genera un senso di disorientamento nell’utente. Solo il 52% delle visite specialistiche, per esempio, è erogato dal pubblico: come possiamo essere sicuri che a queste visite abbiano avuto accesso i pazienti che ne avevano più bisogno? La soluzione, suggerisce il rapporto Oasi, è di tenere conto in sede di prescrizione di criteri precisi, mirati a ridurre le disuguaglianze, come l’area di patologia, il reddito o il livello di istruzione.
Preso atto della difficoltà di reperire le risorse necessarie ad arrestare la crisi, inoltre, i ricercatori propongono alcune strategie per tentare di governarla. Una è quella di riorganizzare la rete ospedaliera. Le strutture più piccole e frammentate, dice il rapporto, devono essere riorientate verso i servizi territoriali. Inoltre, i servizi ambulatoriali e laboratori, soprattutto nelle zone caratterizzate da un’elevata concentrazione di strutture, potrebbero essere accorpati. Un esempio concreto è rappresentato dalla costruzione o dal rinnovo delle Case della Comunità, che offrono un’importante occasione per integrare e centralizzare i servizi territoriali precedentemente dispersi. Infine, suggerisce il rapporto, è necessario proseguire nel processo di digitalizzazione dei servizi sanitari specializzati e promuovere la diffusione di strumenti di autocura per i pazienti cronici e l’implementazione di sistemi di telemedicina, soprattutto per le visite specialistiche.