“La rottura tra proprietà e amministratore delegato ha determinato le dimissioni di Carlos Tavares. Stellantis sta diventando un buco nero. Al fallimento industriale e occupazionale si sta aggiungendo anche quello finanziario. Sono anni che stiamo lottando per salvare l’automotive: siamo stati a Parigi in manifestazione, abbiamo fatto uno sciopero nazionale, ma governo e azienda non hanno affrontato davvero la questione. Ora però occorre impedire che al danno si aggiunga la beffa di una superliquidazione da centinaia di milioni di euro. È ora che i sacrifici li facciano manager e azionisti. Sarebbe uno schiaffo alle lavoratrici e ai lavoratori di Stellantis da 17 anni in cassa integrazione. Le risorse devono essere investite in ricerca e sviluppo e produzione per rilanciare gli stabilimenti italiani e per tutelare l’occupazione. È necessario dare immediatamente certezze: garantire l’occupazione con gli investimenti. Per questo chiediamo alla premier Meloni di convocare immediatamente un tavolo con il presidente di Stellantis John Elkann, altrimenti ci autoconvocheremo a Palazzo Chigi”. Michele De Palma, segretario generale della Fiom, sui problemi dell’industria dell’auto è netto: mancano ricerca e investimenti. La strada per la transizione è segnata, ma “il punto, ovviamente, è come la si governa, i lavoratori non devono essere usati però come specchietti per le allodole per un problema che riguarda le imprese. I due pilastri della transizione sono quelli ambientale e sociale: purtroppo, ho la sensazione che si stia usando la questione ambientale per ristrutturare l’occupazione, ma l’unico pilastro che è garantito è quello finanziario per le multinazionali”.
Anzitutto, qual è il quadro delle vendite di auto elettriche in Italia?
Se noi guardiamo i dati dell’andamento delle vendite dell’auto secondo l’Unrae che è l’associazione che raggruppa i rappresentanti di autoveicoli, ci rendiamo conto che sul trend di vendite sul mercato europeo del periodo gennaio-ottobre 2024 il dato di quest’anno non si discosta di molto da quello dell’anno precedente. In questo scenario, l’Italia è un punto di osservazione particolare, perché siamo il Paese europeo tra i grandi mercati (Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna) in cui la quota di auto elettriche continua ad essere la più bassa da un punto di vista del mercato di tutta Europa: siamo al 4% su un totale di 13.299.63 auto immatricolate in comparazione con il dato di quota di mercato in Germania del 13%, del 17,8% in Gran Bretagna, 17% in Francia, siamo addirittura sotto la Spagna. Nel 1999 l’Italia produceva il 3,5% delle auto prodotte nel Mondo, mentre nel 2023 siamo scesi allo 0,9%.
Non siamo neanche messi particolarmente meglio rispetto al segmento delle plug in
No, siamo, anche qui, fanalino di coda in Europa. Insomma, l’Italia dentro lo scenario europeo sul tema dei segmenti di vendita delle auto è quella che è collocata al punto più basso. Abbiamo anche un altro dato: il crollo della produzione nazionale al fronte di un andamento del mercato che è sovrapponibile a quello dell’anno scorso, il che significa che Stellantis perde quote di mercato in Italia e in Europa, perché non ha offerta.
Quali sono le ragioni di questi numeri?
Noi siamo in crisi come sistema-Paese e stiamo pagando il prezzo di una mancanza di produzione e di offerta di auto sul mercato italiano ed europeo. Quindi il problema che noi abbiamo, ripeto, non è l’auto elettrica, ma l’auto e l’infrastrutturazione dell’‘ecosistema’. C’è poi un secondo elemento. Ford ci aveva insegnato come passare dall’auto per i ricchi all’auto anche per i lavoratori, facendo un modello di auto standardizzata con costi contenuti e contemporaneamente una implementazione del salario conquistato dai lavoratori, così i lavoratori potevano comprare l’auto che producevano. Oggi siamo al rovesciamento di questo paradigma.
In che senso?
Le scelte che sono state fatte fino ad oggi sono state fatte per tutelare la rendita finanziaria, gli effetti negativi sono scaricati sui lavoratori in cassa integrazione e sulle aziende dell’indotto, a cui vengono fatti pagare il prezzo del mantenimento della marginalità e della profittabilità sulla produzione. Oggi il punto non è favorire l’accesso all’acquisto dell’auto alle persone, ma garantire la rendita agli azionisti e agli amministratori delegati, quando sarebbe una responsabilità dell’impresa rendere l’auto accessibile alla classe media o ai lavoratori salariati del nostro paese.
Come giudica l’operato del governo?
Il ministro Urso continua a rilasciare dichiarazioni, ma il risultato è, dopo un anno e mezzo di tavolo dell’automotive, che il governo ha tagliato dell’80% il fondo stabilito da Draghi di 8 miliardi all’automotive, un taglio che cancella il sostegno alla transizione della produzione di auto nel nostro paese e rischia di condannare ad un effetto domino di cassa integrazione e al rischio di licenziamenti. Anche per questo abbiamo inviato una lettera unitariamente per chiedere la convocazione del tavolo del settore automotive alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Cosa si dovrebbe fare, allora?
In Italia e in Europa bisognerebbe prendere atto del fatto che o si compete dal punto di vista delle tecnologie e dell’innovazione o si muore. Invece siamo arrivati tardi e senza aver fatto gli investimenti giusti sull’elettrico e non vorrei ritrovarmi tra qualche tempo con la necessità di tornare alle macchine a vapore, perché non bastano più neanche quelle endotermiche, visto che nel frattempo non abbiamo fatto neanche gli investimenti sull’idrogeno.
E l’Europa, invece?
Avremmo bisogno di una cooperazione tra imprese, sindacato e Unione europea, con risorse per fare la transizione, garantendo la continuità occupazionale. Sarebbe anzitutto necessario che l’Europa facesse un consorzio della transizione dell’auto, che si occupasse del tema delle propulsioni, delle batterie, della ricerca e sviluppo sull’idrogeno, per poter colmare il gap che abbiamo con paesi come la Cina; e dall’altro lato in questo processo di transizione bisogna vedere chi ci ha guadagnato e ha una rendita per metterci delle risorse. Insomma, Bruxelles dovrebbe uscire da una logica fatta esclusivamente di norme e risorse senza politiche: è mancata una politica industriale. Così, mentre Cina e Stati Uniti fanno programmazione e mettono gli investimenti sulla programmazione, l’Europa rischia di essere dilaniata al proprio interno in una competizione dei singoli paesi europei anche sul costo dell’energia.
I dazi, secondo lei, servono?
Io penso che i dazi siano una decretazione di manifesta incapacità, perché mettere i dazi può servire a prendere a tempo, a rispondere a una domanda, una preoccupazione, una paura che c’è ma sono strumenti che non risolvono il problema. Anzi, in questo momento BYD è già presente in Europa con i suoi stabilimenti. Inoltre, mettere i dazi aumenterebbe il rischio di una reazione da parte della Cina, che potrebbe alzare i dazi a sua volta sulle produzioni europea. Voglio ricordare che il 40% delle vendite di Volkswagen è in Cina e noi non siamo esenti visto che siamo in tutta la filiera della componentistica delle auto di Volkswagen. Mentre, l’Europa occidentale è passata dal 37% al 13% di auto prodotte a livello mondiale. Una cosa è certa, però.
Quale?
Noi non possiamo continuare a vedere i lavoratori in cassa integrazione e gli amministratori delegati con cifre da capogiro, abbiamo la necessità di ricostruire un elemento di giustizia. Le classi dirigenti politiche e industriali, senza un radicaale cambiamento che affronti la transizione tecnologica ed ecologica, puntando sul lavoro, potrebbero portare al fallimento l’Italia e l’Europa.