Nella giornata di ieri la Corte d’Assise di Venezia ha condannato in primo grado alla pena dell’ergastolo Filippo Turetta per l’assassinio di Giulia Cecchettin, riconoscendo l’aggravante della premeditazione ma non quelle di stalking e crudeltà.
Posto che occorre attendere il deposito delle motivazioni che avverrà fra 90 giorni, l’esclusione della crudeltà e dello stalking sta giustamente creando molte polemiche presso l’opinione pubblica ed è stata accolta con incredulità e amarezza anche dalla famiglia di Giulia e dal padre Gino, che ha sempre cercato di contenere pubblicamente il suo immenso dolore con un atteggiamento combattivo e costruttivo in difesa della memoria di sua figlia e di tutte le vittime di femminicidio, ma non ha mai rinunciato alla pacatezza e alla misura.
Dai diari di Giulia diffusi dai media siamo venuti a conoscenza del clima di ansia e stress che il comportamento di Turetta le aveva creato durante e dopo la loro relazione affettiva, un atteggiamento caratterizzato dall’ossessione per la ragazza e dalla mania di controllare ogni momento della sua vita attraverso reiterate minacce perpetrate tramite l’invio di centinaia di messaggi al giorno, ingiurie e anche violenza fisica – come risulta dalle chat dove la stessa Giulia scriveva all’ex fidanzato che si era stancata di dare attenzione ad una persona che le aveva dato persino un pugno perché gli era stato negato un abbraccio.
I giudici di Venezia hanno accolto la richiesta della difesa di Turetta che affermava la mancanza di reale paura nei comportamenti di Giulia, perché la giovane non aveva cambiato abitudini di vita, continuava a frequentare il suo ex e aveva accettato quell’appuntamento che le è stato fatale. Con tutto il rispetto per la Corte e per i punti di una legge contro lo stalking che forse andrebbe rivista, l’esclusione di questa aggravante a mio avviso è un messaggio molto pericoloso perché potrebbe indurre nei futuri carnefici che si macchiano di questo orribile comportamento la presunzione di farla franca e nelle future vittime la rassegnazione di dover subire abusi, minacce e vessazioni che sarebbe inutile denunciare alle autorità.
“Se non è stato considerato stalking il modus operandi di Turetta, perché dovrebbero esserlo i miei messaggi, i miei pedinamenti, le mie richieste di informarmi su cosa lei fa, dove va e con chi va quando non sta con me? E se ogni tanto le do uno schiaffo o la insulto perché se lo è meritato credo che nessuno potrà punirmi” potrebbe essere la riflessione di uno stalker che si sente autorizzato a reiterare le sue condotte impunemente. Oppure “Se Turetta non è stato accusato di stalking, a cosa serve che io vada dai carabinieri a denunciare il mio ex che si apposta sotto casa mia e mi insulta perché non gli rispondo al telefono? E se ogni tanto mi dà uno schiaffo e mi dice che sono una miserabile e una poco di buono perché sono uscita con le mie amiche, a cosa serve che io vada a raccontarlo in una caserma?” potrebbero essere i pensieri di una vittima che non crede più all’efficacia della legge.
Per quello che riguarda la crudeltà, se è vero che giuridicamente il reato si integra in modo differente da come viene percepito dai media e dall’opinione pubblica, come si fa a non ritenere che 75 coltellate sferrate nell’arco di più di 20 minuti siano semplicemente dovute allo stato emotivo dell’omicida e non alla volontà di infierire sulla vittima per distruggerne la dignità? Serve che un assassino manifesti la volontà di umiliare un cadavere facendolo a pezzi o dandogli fuoco perché si possa parlare di crudeltà? La furia omicida di un narcisista maligno che mira a privare della vita una donna che considera alla stregua di un oggetto di sua proprietà cancellandone l’identità e l’autodeterminazione non è forse crudeltà?
Al netto di queste riflessioni è altresì doveroso aggiungere che l’esclusione delle due aggravanti potrebbe pesare anche sull’esito di un eventuale appello al quale molto probabilmente la difesa di Turetta è intenzionata a ricorrere. Anche perché è utile ricordare che l’ergastolo, al quale Turetta è stato condannato in primo grado, nel nostro Paese di fatto non equivale alla misura detentiva del “fine pena mai” ma, nella maggior parte dei casi, ad un periodo di carcerazione che, tra permessi premio, semilibertà e liberazione anticipata si traduce in una pena che varia dai 21 ai 26 anni.
Se, come afferma giustamente Gino Cecchettin, la lotta contro la violenza sulle donne deve essere combattuta tramite un cambiamento culturale ancor prima che attraverso un inasprimento delle pene, è altrettanto vero che non bisogna correre il rischio che il mancato riconoscimento di certe aggravanti contribuisca ad aumentare la consapevolezza dell’impunità nei carnefici e la rassegnazione all’inutilità delle denunce nelle vittime.