di Giuseppe Mammana
Mentre in Italia continuano a sventolare le bandiere della destra che spingono sull’esternalizzazione dei Cpr in Albania, riproducendo un conflitto tra magistratura e classe politica di berlusconiana memoria, sulla questione palestinese non ci sono “giudici di sinistra”: al contrario si palesa un’alleanza di ferro tra magistratura e classe politica: un patto fondato sulla repressione contro i sostenitori della causa palestinese. Come dimostrano i 23 avvisi di garanzia contro gli studenti manganellati dalla polizia, a Pisa, il 23 febbraio.
Tuttavia, tra qualche manganellata e qualche arresto, si scorgono anche delle buone notizie. Come quella di Seif Bensouibat che ha vinto la sua battaglia legale: il Tribunale di Milano, qualche settimana fa, ha accolto la richiesta contro la revoca della protezione, restituendo lo status di rifugiato all’educatore algerino. Seif che aveva “osato” denunciare, sul suo profilo Instagram, i crimini commessi da Israele e le complicità, di diversi stati occidentali, sul genocidio in atto a Gaza, era finito sotto il radar dell’antiterrorismo e della Digos.
Il ragazzo nel giro di pochi mesi è caduto in un vortice infernale: a gennaio aveva subito una perquisizione da parte dell’antiterrorismo (alla ricerca di armi ed esplosivi), e il licenziamento da parte dello Chateaubriand, la scuola dove lavorava come educatore. Infine, tra febbraio e marzo, ha subito la revoca dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale, e la deportazione al Cpr di Ponte Galeria.
Una vittoria della rete di solidarietà costruita in questo periodo: sostenuta dai legali come Flavio Rossi Albertini, Nazzarena Zorzella, Jacopo Di Giovanni e Dario Belluccio, la Legal clinic, Radio Onda rossa, associazioni e militanti che hanno collaborato insieme accompagnando Seif in questi lunghi mesi. Quanto basta per dimostrare come la costruzione di una collettività sia in grado di vincere le battaglie più difficili. Non abbastanza per restituire al ragazzo algerino quello che gli è stato tolto: l’allontanamento dal lavoro, l’attacco alla sua dignità, la permanenza dentro i centri di prigionia, i Cpr, e l’accanimento mediatico di alcuni quotidiani che, nei giorni successivi al licenziamento, lo rappresentavano come un “pericolo per l’occidente”.
La storia di Seif, pur vincendo la battaglia, resta confinata a quelle vicende di segregazione in quanto cittadino straniero, algerino e “terrorista” perché simpatizzante della lotta palestinese: ancora su di lui pende l’indagine per istigazione all’odio etnico, religioso e razziale. Un’accusa ormai ricorrente, in particolare dopo il 7 ottobre, che si abbatte contro i cittadini stranieri di seconda generazione o palestinesi come Anan Yaesh, in carcere all’Aquila con l’accusa di terrorismo internazionale; e verso tutti coloro riconosciuti come sostenitori della causa palestinese: come le indagini contro Chef Rubio e il professore Orsini.
Allo stesso modo il caso Seif dovrebbe allarmare l’area democratica di questo paese perché evidenzia un livello di razzismo radicato a tutti i livelli istituzionali. Dalla Digos, che durante la perquisizione domiciliare obbliga il ragazzo a seguirli in caserma per controllare la “sua posizione nel territorio”, nonostante nello stesso documento risultava che fosse in possesso del regolare permesso di soggiorno; al giudice dell’indagine preliminare di Roma che, accogliendo i motivi della perquisizione, affermava che i post fossero una espressione della radicalizzazione jihadista del ragazzo e non una manifestazione del pensiero politico; fino ad arrivare alle parole del giudice di pace, al momento del rilascio dal Cpr, che rigettando il trattenimento – nel centro di Ponte Galeria – definiva Seif un “cittadino islamico”. Assistiamo a una repressione del dissenso, come affermato dalla deputata 5 Stelle Stefania Ascari, al question time alla Camera, a novembre, che colpisce in egual misura l’apicoltore multato per aver esposto dei cartelli “stop al genocidio”; e gli studenti, a Pisa, prima manganellati dalla polizia e dopo perseguitati dalla giustizia.
Due pesi e due misure: come le difficoltà di arrestare i leader israeliani, Netanyahu o Gallant, per crimini di guerra, nonostante il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale; mentre è possibile arrestare o uccidere impunemente i leader di Hamas perché considerati animali umani e senza alcuna dignità.
Il tutto orchestrato attraverso una silente, e neanche troppo, strategia mediatica: secondo un’inchiesta del quotidiano L‘Indipendente, negli Stati Uniti ci sono numerosi giornalisti che lavorano per importanti testate e televisioni che perseguono campagne di propaganda sionista malgrado un esplicito conflitto di interessi. L’inchiesta denuncia che alcuni giornalisti ricoprono, o hanno ricoperto, incarichi come agenti di intelligence o riservisti dell’esercito israeliano; o addirittura come consulenti del presidente Netanyahu.
Allo stesso modo per il caso di Seif ci sono degli “attori nascosti”, rimasti nell’ombra della vicenda, che hanno agito da manovratori occulti. La “talpa” è l’ambasciata francese, ai vertici del liceo Chateaubriand, che comunicando con il dirigente scolastico accedeva ai contenuti di messaggistica privata di Seif. A quel punto l’ambasciata allertava la polizia formalizzando – tramite il dirigente scolastico – l’allontanamento e il licenziamento del ragazzo per ragioni di sicurezza. Non è un caso che dietro il caso di Seif ci sia la Francia, che ha incarcerato, nei mesi scorsi, diversi sostenitori della causa palestinese, come Annase Kazib, attivista sindacale, indagato per alcuni post sulla Palestina e accusato di “apologia al terrorismo”.
Una vicenda, quella di Seif, dai contenuti torbidi che ci lascia diversi interrogativi: è possibile che il genocidio – di bambini e civili palestinesi – non rappresenti un crimine di guerra, mentre delle opinioni pro Palestina arrivino a essere considerate atti di terrorismo?