La procura di Torino ha chiesto l’archiviazione delle indagini sulle offese via social indirizzate all’imprenditrice torinese Cristina Seymandi, protagonista nell’estate 2023 di una burrascosa separazione sentimentale dall’imprenditore Massimo Segre a seguito della quale divenne bersaglio dei cosiddetti ‘haters’. All’origine un video dell’annuncio delle nozze, poi diventato virale, in cui il banchiere torinese faceva saltare il matrimonio accusando la compagna di essere innamorata di un altro uomo e di averlo tradito in passato. Per la procura il caso va chiuso, perché, tra i vari motivi, vi sarebbe anche il fatto che “la progressiva diffusione di circostanze attinenti la vita privata e la diffusione dei social ha reso comune l’abitudine ai commenti, anche con toni robusti, sarcastici, polemici e inurbani”, pertanto “occorre tenere conto della mutata condizione della società la quale, con l’uso dei social, è divenuta maggiormente sensibile agli avvenimenti privati delle persone” e quello che non è tollerato nel mondo reale, “nel mondo dei social è quasi normale”. Ma le ragioni dei pm lasciano “basiti”, provocano “profondo senso di disagio” e “offendono”, dice Seymandi al Corriere della Sera, perché così agli haters viene data una “pacca sulla spalla”. “Subito sono rimasta senza parole, poi ho riflettuto su quanto scritto dal magistrato. In pratica, è un liberi tutti. Ciò che è vietato dire verbalmente nel mondo reale viene sdoganato sul web, che diventa uno schermo di protezione per gli hater”, spiega al Corriere.
Il legale dell’imprenditrice, Claudio Strata, chiede però al giudice di ordinare il proseguimento delle indagini o l’imputazione coatta. “Si vuole davvero – scrive ora l’avvocato Strata nell’opposizione – fare passare la cattiveria e la brutalità dei commenti come fisiologiche espressioni di un diritto di critica in ragione del contesto dialettico nel quale sono realizzate le condotte? Tale epilogo – c’è scritto nell’atto ora al vaglio del gip – si rivelerebbe assai pericoloso, in quanto legittimerebbe qualsivoglia individuo a esprimersi nelle più volgari, offensive e denigratorie maniere in qualunque contesto, sconfinando nella aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo”.
“Definire una pratica ormai consueta sui social utilizzare un linguaggio non elegante e toni robusti lascia basiti tutti – sottolinea Seymandi ad AdnKronos – ma penso che innanzitutto lasci basiti i tanti ragazzi e professori che nelle scuole fanno corsi di cyberbullismo. Immagino un ragazzino di 12-13 anni a cui si è appena detto durante il corso che non si odia sui social, che bisogna avere rispetto, poi torna a casa e legge una notizia di questo tipo, che i toni robusti sono una pratica”. “E’ anacronistico, soprattutto in questo momento – prosegue – è appena passato il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, quindi la violenza è solo fisica, perché quella verbale non viene più contestata? Viene accettata? Mi rifiuto di accettare una cosa del genere. Non è punibile chi insulta un’imprenditrice di quasi 50 anni mentre forse riconosciamo che su una donna di 20 o 25 anni o su un ragazzino di 18 l’insulto potrebbe avere effetti negativi tragici? I valori in una società civile vanno fatti rispettare sempre”, conclude.
In particolare, precisa Seymandi, ”nel mio caso, un’imprenditrice di quasi 50 anni indipendente economicamente e psicologicamente, è stato possibile reggere l’ondata di odio, mentre su una donna di 20 o 25 anni o su un ragazzino di 18 l’insulto potrebbe avere effetti negativi tragici. I valori in una società civile vanno fatti rispettare sempre”, conclude. Non solo non si aspettava questo epilogo ma ”soprattutto non mi aspettavo queste motivazioni. Subito sono rimasta senza parole, poi ho riflettuto su quanto scritto dal magistrato. In pratica, è un liberi tutti. Ciò che è vietato dire verbalmente nel mondo reale viene sdoganato sul web, che diventa uno schermo di protezione per gli hater”, continua parlando al Corriere, al quale specifica di sentirti offesa “due volte. Denunciare è stato un atto dovuto, non potevo far finta di nulla di fronte a messaggi intrisi di violenza e volgarità. Penso a tutte le persone che lo scorso 25 novembre sono scese in piazza per manifestare contro la violenza sulle donne, penso a come possano leggere e interpretare un’archiviazione di questo tenore in cui si dice che è “normale” sul web usare toni ”robusti”. No, non è normale se quei toni ledono i diritti dei cittadini. La violenza contro le donne ha mille forme, tutte vanno combattute. Faccio mie le parole della sorella di Giulia Cecchettin, ‘sei vittima solo se sei morta’”.