Parigi e Berlino avevano dichiarato di “prenderne atto” e di studiare attentamente il caso, mentre l’Ungheria ha intenzione di disattendere la decisione dei giudici. Ma a fare luce sul mandato di arresto ai danni di Benjamin Netanyahu è la stessa Corte penale internazionale, che lo ha emesso: tutti i Paesi che aderiscono alla Cpi – i 124 firmatari del Trattato di Roma, che includono quelli citati sopra – sono tenuti ad eseguire i mandati di arresto emessi dall’Aja, inclusi quelli nei confronti di capi di Stato o di governo esteri, come il premier israeliano. Nel caso in cui questi Paesi ritengano che ci sono circostanze che “impediscono loro di cooperare con la Corte“, allora devono rivolgersi ai giudici, cui spetta la decisione. A spiegarlo a Bruxelles incontrando la stampa, è stato il portavoce della Cpi Fadi el Abdallah. Il nodo sta nel fatto che verso Netanyahu e Putin, in quanto capi di Stato e di governo di Paesi non firmatari dello Statuto di Roma, le nazioni partner potrebbero violare le loro responsabilità di garantirne l’immunità dall’arresto, cosa che non accadrebbe invece con Paesi firmatari dello Statuto. Il punto però è che la deroga, per così dire, va chiesta dagli Stati stessi ai giudici della Corte, costruendo un caso legale: senza autorizzazione da parte della Cpi, i Paesi sarebbero in violazione dei loro obblighi, anche nell’esecuzione dell’arresto. Che è quanto capitato alla Mongolia, il cui caso è in via di esame alla Corte. Ebbene. Per quanto riguarda il caso di Netanyahu e Yoav Gallant, ci sono Paesi che hanno iniziato già tali procedimenti legali? “Non ho visto nulla del genere nei documenti pubblici ma io, in ogni caso, ho accesso solo ai documenti pubblici”, spiega il portavoce. Gli Stati hanno infatti la possibilità di chiedere alla Corte la confidenzialità delle procedure.
“L’articolo 27 dello Statuto di Roma – ha proseguito il portavoce – dice chiaramente che non c’è immunità dall’azione penale per nessuno e questo non vale solo per la Corte Penale Internazionale (Cpi) ma è un principio stabilito anche dalla Corte Internazionale di Giustizia“. E per quanto riguarda “l’esecuzione dell’arresto” la situazione potrebbe essere diversa “ma la decisione spetta ai giudici della Cpi stessa”. Dunque, “se uno Stato ritiene che vi sia una sorta di conflitto tra l’obbligo di rispettare, ad esempio, l’immunità diplomatica di un accusato, o se vi sono altre circostanze che gli impediscono di onorare l’obbligo di cooperare con la Corte anche per quanto riguarda i mandati d’arresto, l’articolo 9 dello Statuto di Roma consente di sottoporre la questione ai giudici della Cpi, che decideranno e daranno indicazioni sull’attuazione o meno di una determinata decisione”, spiega il portavoce. Per il Tribunale Penale Internazionale (Icc), dice il portavoce, “l’articolo 27 dello statuto di Roma è chiaro: non c’è immunità dalle accuse per nessuno. E’ un principio stabilito dal diritto internazionale. Se gli Stati ritengono che ci sia un conflitto tra il loro obbligo e, per esempio, quello di rispettare l’immunità diplomatica o altre circostanze che impediscano loro di cooperare con la Corte, per quanto riguarda i mandati di arresto, c’è l’articolo 9 che crea l’obbligo di cooperare con la Corte, ma permette loro anche di portare la cosa all’attenzione dei giudici, in modo che decidano se devono rispettare il loro obbligo o no. Sta ai giudici decidere”.
“Se guardiamo alla storia della giustizia penale internazionale – aggiunge – gli ordini di arresto sono rimasti pendenti anche per 10, a volte 15 anni e alla fine vengono eseguiti. I mandati di arresto sono validi a vita: non possono essere ritirati, se non con una decisione da parte dei giudici, perché c’è una argomentazione valida per cui dovrebbero essere ritirati. Crediamo che i giudici abbiano deciso in base alle prove presentate loro: rispettiamo la presunzione di innocenza“, ma gli accusati “devono rispondere. Le circostanze politiche possono cambiare, ma la giustizia continua a perseguire i suoi obiettivi”. C’è chi ritiene che gli ordini di arresto della Cpi possano costituire un ostacolo alle trattative di pace. “E’ un argomento che viene usato – dice – ma le considerazioni politiche non vengono valutate dalla Corte. Crediamo che non ci sia pace duratura senza giustizia. Se ci sono considerazioni per le quali c’è bisogno di fermare i casi, per esempio perché ci sono negoziati di pace, non sta alla Corte decidere. Ma c’è un articolo nello statuto di Roma – spiega – che permette al Consiglio di sicurezza di sospendere le attività della Corte per 12 mesi, una decisione che può essere rinnovata. C’è la possibilità per il Consiglio di Sicurezza di sospendere, ma non di terminare i casi davanti alla Icc. Per la Corte, noi abbiamo procedure legali da seguire e non possiamo prendere in considerazioni argomenti politici”, conclude.