Con il disimpegno Usa dalla regione e le difficoltà dei principali alleati di Assad (Russia, Iran e Hezbollah) nell'offrire un sostegno militare, il presidente turco prova a sfruttare la situazione
Ora è ufficiale. Le forze islamiste che in queste ore sono arrivate alle porte di Homs puntano a far cadere il regime siriano di Bashar Al Assad con l’aiuto della Turchia. “Dopo Idlib, Hama e Homs l’obiettivo sarà Damasco – ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – Abbiamo lanciato un appello ad Assad, abbiamo detto ‘forza, determiniamo assieme il futuro della Siria‘. Purtroppo, non abbiamo ricevuto una risposta positiva”. Dopo avere interrotto le relazioni nel 2011, negli ultimi anni Ankara ha più volte tentato di ristabilire le relazioni con Damasco. Ora, con la capacità degli Usa di Joe Biden di influire sulla regione ridotta al minimo, in attesa dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, e i principali alleati del regime (Russia, Iran e Hezbollah) impegnati su altri importanti fronti di guerra, il Sultano ha deciso di passare all’azione. Per rafforzare la posizione della Turchia sullo scacchiere mediorientale e su quello internazionale.
Le parole di Erdogan irrompono nel pieno dell’avvio ufficiale delle trattative diplomatiche tra i Paesi impegnati nel conflitto. Il ministero degli Esteri di Ankara ha confermato che la delegazione turca domani incontrerà quella russa e quella iraniana a margine del Forum di Doha: “Il ministro Hakan Fidan incontrerà i ministri russo Lavrov e iraniano Araghchi per un incontro nel formato Astana”, (Russia, Iran e Turchia), il gruppo di mediatori che durante e dopo il primo conflitto siriano avevano coordinato gli sforzi per la tregua e che, dopo la ripresa improvvisa del conflitto la scorsa settimana, non si era ancora riunito.
A provare a dare le carte sarà Ankara, che storicamente ha due obiettivi. Il primo: contenere, mettere sotto pressone, e se possibile sradicare la popolazione e le milizie curde dalle aree appena al di là del suo confine. La Syrian National Army (coalizione di milizie cooptate dalla Turchia che in questi anni hanno massacrato la popolazione curda del Nord) ha preso il controllo dell’area di Tall Rifaat, centro a nord di Aleppo, per anni in mano alle forze curdo-siriane utilizzate dagli Stati Uniti in chiave anti Isis, la cui presenza è largamente diffusa nel settentrione del Paese e che secondo Erdogan costituiscono una minaccia terroristica per la Turchia. Non è un caso che oggi Mazloum Abdi, leader delle Forze democratiche siriane (Sdf) a maggioranza curda che controllano gran parte del nord-est, abbia dichiarato di essere aperto a colloqui con la Turchia e i ribelli islamisti”: “Vogliamo una de-escalation con Hayat Tahrir al-Sham (l’altro cartello di milizie che sta conducendo l’offensiva contro Damasco, ndr) e altre parti e risolvere i problemi attraverso il dialogo. Siamo rimasti sorpresi nel vedere l’improvviso e rapido crollo delle forze governative siriane in prima linea – ha aggiunto -, mentre le fazioni hanno preso il controllo di vaste aree imponendo una nuova realtà politica e militare”.
Il secondo obiettivo del presidente turco è poi quello di estendere la propria influenza sul Paese governato da 53 anni dalla dinastia degli Assad e, di conseguenza, sulla regione. Così ha approfittato del momento. Con la Russia alleata del regime impegnata nella logorante e costosa guerra in Ucraina, l’Iran fiaccato dalla crisi economica e, come l’altro alleato Hezbollah, dal conflitto per procura con Israele, Erdogan si è messo in una situazione di vantaggio per ritagliarsi – al tavolo delle trattative e non solo – un ruolo di arbitro con Mosca e Teheran sul futuro della Siria.
Con un altro obiettivo di lungo termine: che l’avanzata delle forze ostili al regime, e la prospettiva di una sua eventuale caduta, spinga almeno una parte dei 3 milioni di rifugiati siriani ospitati in Turchia a fare ritorno in patria. Anche se al momento il rischio è che i bombardamenti delle aviazioni di Damasco e di Mosca sui territori in mano ai ribelli creino nuovi ingenti flussi migratori in direzione nord: secondo il World Food Programme, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, l’escalation nel nord-ovest del Paese ha già fatto più di 280 mila sfollati.