Cultura

Prima della Scala, in scena l’opera “innominabile” di Verdi: ecco di cosa parla “La Forza del Destino” e la trama atto per atto

di Diego Pretini
Prima della Scala, in scena l’opera “innominabile” di Verdi: ecco di cosa parla “La Forza del Destino” e la trama atto per atto

Il terremoto più potente del mondo, il quarto della storia moderna, con conseguente tsunami e catastrofe di Fukushima colpì il Giappone proprio mentre il maestro Zubin Mehta metteva a punto la prova d’insieme della 24esima opera di Giuseppe Verdi con l’orchestra del Maggio Fiorentino. Leggenda vuole che il primo settembre 1939 in cartellone al teatro Wielki di Varsavia ci fosse proprio questo titolo del compositore di Busseto e in quelle ore la Germania di Hitler varcava il confine trascinando l’Europa nella sciagura. Certo, invece, è che il baritono americano Leonard Warren morì a 49 anni sul palco del Metropolitan di New York dov’era impegnato nella parte di Don Carlo di Vargas, uno dei protagonisti del lavoro verdiano ( il giornalista Alberto Mattioli, inesauribile pozzo di conoscenza della lirica, racconta che Warren stava per cantare “Morir, tremenda cosa”). Il librettista Francesco Maria Piave – che aveva contribuito ai trionfi di Verdi con dieci opere – dopo aver dato alla luce questo testo finì dentro una serie disastrosa di disgrazie: finì i risparmi, le entrate calarono, cominciò a chiedere prestiti agli amici (Verdi compreso), gli prese un ictus, visse gli ultimi 9 anni della sua vita paralizzato.

Chi legge potrà capire con quale sforzo si provi a non mettere qui per esteso il titolo dell’opera che apre – impavidamente – la stagione della Scala. La superstizione e il carico di cornetti rossi che si porta dietro la storia si incrocia il mito. Racconta in ordine sparso Mattioli in “Meno grigi più Verdi” (Garzanti, 2018): “Forfait, incidenti di palcoscenico, crisi isteriche o di voce, cadute clamorose, stecche memorabili, Padri guardiani cui si stacca la barba posticcia, Preziosille che inciampano nei tamburi o nel Rataplan, Alvari che entrano in scena dimenticando le parole o la pistola (nel caso, il Marchese di Calatrava muore d’infarto), direttori che cascano dal podio franando sui violinisti, sovrintendenti sfiduciati dal consiglio d’amministrazione”. Al momento in cui questo articolo viene scritto per la Prima della Scala ci si è fermati alla rinuncia di Jonas Kaufmann – una delle star del circuito operistico, soprattutto per effetto del voto di chi apprezza il fascino maschile – che avrebbe dovuto interpretare Alvaro, il protagonista dell’opera che qui si cerca comunque di non nominare, e invece non ci sarà.

Perché – a sentire coloro che frequentano e si intendono di lirica – questa opera di Verdi non solo spinge a gesti più o meno apotropaici – le corna sono quelle più dicibili in un ambiente morigerato come questo giornale -, ma combatte ad armi pari con Tutankhamon e Oetzi, tanto da produrre una notevole successione di sinonimi tra cui vince per uso quotidiano la Potenza del Fato? Ci sono varie scuole di pensiero. La prima: la trama presenta una sfilza di coincidenze sfortunate o se si preferisce sfighe nere proporzionata ai colpi di scena. Quindi non ci si annoia ma il rischio è di reagire come davanti all’eroe del thriller che deve raggiungere la fine del film senza una gamba, senza una casa, senza una famiglia, senza speranza (colpo di evidenziatore: la trama di Verdi che poi si basa su un lavoro di un autore spagnolo dell’Ottocento non è così banale, era solo un esempio). La seconda spiegazione che di solito ricorre sulla fama oscura del titolo di Verdi tra Un ballo in maschera e Don Carlos riguardano tre parole che Piave – la prima delle vittime – mise in origine nel libretto. A un certo punto al protagonista nel terzo atto toccherebbe dire “Fallì l’impresa”. In un mondo come il teatro al cospetto del quale la scaramanzia di certi vicoli di Napoli è fisica quantistica è comprensibile come l’estro del Piave fu preso con i dovuti scongiuri tanto più in un periodo storico in cui se “falliva l’impresa” tirava giù tutti: produttore, regista, cantanti, maestranze. La storia dice che nell’uso quotidiano quella frase non esiste più e al suo posto si sente cantare un più vago “Fu vana impresa”.

Questa opera di Verdi porta con sé aspetti più seri a cui fare attenzione se capiterà di seguirla in televisione. Mattioli, in quel libro di qualche anno fa, la descriveva per esempio come modello di un “neorealismo dell’Ottocento, un’Italia dipinta dal vero sia pure con i soliti mascheramenti spaziotemporali”. Un’opera che raccontava il Paese che eravamo in quegli anni, “che andava all’opera anche per rispecchiarcisi”. “Verdi – continua Mattioli – spiegava agli italiani l’Italia com’era, non come credeva di essere”. “Sapeva – aggiunge lo scrittore – che l’Italia non era quella che si vedeva dagli scranni di Palazzo Carignano (il primo Parlamento dell’Italia unita, ndr). Sapeva che i libri li leggevano in pochissimi allora come oggi e che per lui e i suoi amici liberali e positivisti la Chiesa era il nemico da abbattere, ma che per molti italiani rappresentava la speranza di un futuro miglore nell’aldilà e la concretezza di un piatto di zuppa nell’aldiqua”. Fin qui un lunghissimo teaser. L’ultima cosa che resta da sciogliere è la trama dell’opera dal titolo impronunciabile nemmeno per iscritto. Questo è un tentativo di accompagnare la visione, soprattutto per chi proverà a seguire un’opera lirica per la prima volta o quasi.

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