Quarto atto - 5/5
Si torna al monastero degli Angeli, dove avevamo lasciato rifugiata Leonora. Qui fra Melitone è sottoposto ai giudizi tripadvisor dei fratelli monaci perché serve la minestra come un cameriere di Cucine da incubo. “Ah com’era bravo invece padre Raffaele” si lasciano scappare i commensali. Raffaele altri non è che don Alvaro che con tutti i monasteri che esistono in Spagna si è chiuso proprio in quello cui si trova l’amata perduta. “Scusi, mi chiama Raffaele?” chiede don Carlo alla porta del monastero dopo aver capito che il responsabile dell’omicidio colposo del padre è lì dentro. Lo sfida ancora a duello, Alvaro non ne ha voglia, poi ora ha anche addosso il saio da monaco, ma l’altro punta tutto sull’orgoglio e sul razzismo (è una tradizione di famiglia evidentemente): gli dice che è codardo e mulatto (gli Inca di cui sopra), e lo schiaffeggia pure. A quel punto anche Alvaro – per quanto uno possa essere svogliato – si tira su il saio sulle gambe e guadagna l’uscita dal monastero per battersi.
Cambio di inquadratura. Verdi ci porta da Leonora, nell’eremo, strutta nel ricordo dell’amato che crede bello che morto. Invece è solo il sottofinale, una girandola di colpi di scena. Bussano all’eremo e Leonora, , apre: si ritrova davanti Alvaro e non è un fantasma per quanto non abbia una bella cera. “C’è lì fuori tuo fratello quasi morto”. Mentre lui riflette (“lo vedi a volte, il destino cosa combina?”), lei esce e corre dal fratello il quale però purtroppo è vivo almeno quanto basta per colpirla a morte con un pugnale perché il bastardo è rimasto bastardo anche in fin di vita. Alvaro – il genio che ha mandato la fidanzata dal fratello carogna – impreca, è disperato, Leonora muore e canta e gli dice che a questo punto l’unica è rivedersi all’altro mondo. Questa volta muore per davvero. Lui non ha più lacrime, maledice il proprio destino. Arrivano i monaci, lo trovano su una rupe e capiscono che non l’ha presa bene: “Apriti o terra, m’ingoi l’inferno, precipiti il cielo, pera la razza umana”.