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Viva Robbie Williams e la sincerità del suo ‘Better Man’: “Non l’ho fatto perché altri potessero riconoscersi nelle mie fragilità, l’ho fatto perché serve alla mia carriera”

Il punto è che, se dentro non sei adamantino, il crack interiore non lo ripari mai. La fama è tossica, nel pianeta delle scimmie pop. Se vuoi tentare di curarti devi dire le cose come stanno, e non solo sul lettino dello psicologo

di Stefano Mannucci
Viva Robbie Williams e la sincerità del suo ‘Better Man’: “Non l’ho fatto perché altri potessero riconoscersi nelle mie fragilità, l’ho fatto perché serve alla mia carriera”

Una sassata in cristalleria. Prendete Robbie Williams, accettatelo sullo schermo come uno scimpanzé generato dal computer (la voce è sua, il corpo in motion capture è dell’attore Junno Davies) e improvvisamente lo stucchevole filone del biopic va in coriandoli. Perché questa non è solo la trasposizione cinematografica della vita e delle opere della star di Stoke-on-Trent, con tutte le sue scomode verità: il sottotesto è che lustrare le vicende delle icone pop e rock come se fossero santi, poeti e navigatori del nostro tempo, Quelli-che-ce-la-puoi-fare-anche-tu-se-ci-credi-intanto-io-ho-avuto-culo-e-talento, ecco, quelle biografie edificanti e zuccherose, utili per vendere le rimanenze di catalogo che ancora giacciono sugli scaffali, tutta questa missione di riverniciatura industriale di miti da poster ha ampiamente rotto i cabbasisi. Se Dylan – Dylan! – dice che Timothée Chalamet è perfetto nei panni del folksinger da giovane, è un bacio della morte. Così come lo fu l’infinito, tormentoso lavoro di sceneggiatura su Bohemian Rhapsody, il bilancino sul carisma di Freddie rispetto agli altri Queen.

Comunque, chi ha voglia di affaticarsi anima e occhi distinguendo Springsteen, Elvis o Elton John da chi interpreta i loro ruoli? L’originale e il fake: basta un po’ di trucco e puoi bertela, credere davvero che le cose siano andate così, con il plot moralizzante e la verità dei fatti che va a farsi benedire. Come può il biocinema offrirti verità? E poi, qui non si parla di agiografie commissionate su fondatori di banche, bensì su artisti che come minimo sono dei bastardelli. Se Taylor Swift o Mick Jagger autorizzassero progetti senza filtri sulle loro zone d’ombra, ne vedremmo delle belle. Nel frattempo, sono le breaking news a mostrarci il buio della gabbia pop: l’eloquenza della morte di Liam Payne, i capi d’accusa a carico di Puff Daddy.

Allora viva Robbie Williams e il suo “Better Man, diretto da Michael Gracey (“The Greatest Showman”): anteprime in questi giorni nelle sale italiane, uscita ufficiale il 1° gennaio. La genialata dell’essere rappresentato come un quadrumane antropomorfo non è solo uno spiazzante effetto speciale, il bioparco che entra nel biopic, ma la maschera con cui il Nostro riesce a mettersi a nudo: un’infanzia sulle montagne russe emotive (il padre che se ne va, la nonnina che però lo motiva a credere in se stesso), l’ascesa e la conquista del mondo con i Take That, il rapporto con un manager che più cinico non si può, l’uscita dalla boyband quando hai ancora 21 anni e pensi di essere già morto, gli Oasis che lo prendono per i fondelli, la tormentata relazione con Nicole Appleton delle All Saints, la rinascita come solista.

Il punto è che, se dentro non sei adamantino, il crack interiore non lo ripari mai. La fama è tossica, nel pianeta delle scimmie pop. Se vuoi tentare di curarti devi dire le cose come stanno, e non solo sul lettino dello psic. Sei uno che ha tentato il suicidio, che si è fatto di ogni e con ogni, che prima di incontrare la moglie non te lo tenevi nei pantaloni, che a Knebworth ti sei fatto calare a testa in giù dal tetto del palco come – davvero – un animale acrobata; che quando ti prendeva male telefonavi in diretta alle radio per confessare che ti sentivi solo e il dj pensava a una burla, che svendi le tue sontuose ville perché dentro ci senti i fantasmi.

Allora ti confidi, in un film dall’andamento strepitoso. E spieghi: “Volete che io sia sincero? Non l’ho fatto per altruismo, o perché altri potessero riconoscersi nelle mie fragilità, ho fatto ‘Better Man’ perché serve alla mia carriera: per il mio lavoro sono costantemente alla ricerca dell’attenzione, se non mi noti non esisto. Che lo spettatore si identifichi e provi empatia è un effetto collaterale che gratifica il mio narcisismo”. Alla fine del film, certo, ci sono indicazioni di siti in cui le persone in difficoltà possono rivolgersi. Sottolinea il regista Michael Gracey: “Una volta erano solo i famosi a subire il giudizio degli altri, oggi con i social lo sono tutti, questo è pericoloso soprattutto per gli adolescenti. Robbie un giorno mi disse: se tu non mi ami non mi amo neanche io”.

Alla vigilia dell’uscita di “Better Man” le valutazioni della critica sono più che lusinghiere. “Ma”, teme Robbie, “se al botteghino dovesse essere un fiasco ne risentirebbe la mia terapia”. Lui si vede sul serio come “un subumano”, non così addomesticabile. Combatte con la dismorfia, da sempre: “La mia nevrosi persiste. Il mio corpo è stato ed è fonte di disagio mentale. Ho vissuto la compulsione sulle droghe, il cibo, il bere, il computer. Col sesso ho chiuso (ride). Il problema è come mi vedo allo specchio, da quando ero un ragazzino cicciottello. Ok, ora sono fottutamente sexy”.

Ci voleva, forse, anche l’azzardo di questo biopic, così tangenziale e innovativo rispetto a quelli “di cui siamo così stufi”, picchia il cantante. “Tutti sanificati, ripuliti e risistemati. Il nostro non lo è, pure nei punti in cui avrebbe dovuto esserlo”. Uno sforzo niente male, girarlo. Come nella scena da musical a Regent Street con Robbie e i (finti) Take That. Gracey puntualizza: “Un anno e mezzo di preparazione solo per quel pezzo, la strada chiusa per noi, 500 ballerini, il bus a due piani. E al momento delle riprese muore la regina. Dieci giorni di lutto, l’assicurazione non paga per la scomparsa di una sovrana. Così abbiamo dovuto trovare nuovi fondi e aspettare cinque mesi”. Intanto Robbie gironzola in Italia: ci tornerà il 17 luglio allo Stadio Nereo Rocco di Trieste, unica tappa del tour nella penisola. Si è goduta la performance alla finale di XFactor: “Ho capito e amato ancora di più il vostro carattere nazionale nel backstage di Napoli: un formidabile, bellissimo casino con gente che urlava, correva e non capivi cosa accadesse. Poi il live in tv era perfetto. Questo è il vostro calore, la passione che ci mettete. In uno show televisivo in Inghilterra, dietro le quinte tutti precisini e perfettini”. Gli chiedono di Sanremo. “Lo fanno ancora? Mi piacerebbe se mi invitassero di nuovo. Quella volta al Festival ‘94 con i Take That? Chi se lo ricorda, ero strafatto!”.

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