Chi pensava ingenuamente che la crisi finanziaria del 2008 con le sue nefaste conseguenze avrebbe portato i governi a tagliare le unghie alla finanza d’assalto, il tratto tipico del nuovo capitalismo, si deve ricredere. Non solo i signori della finanza hanno tratto vantaggio dal diluvio monetario che ne è seguito, con borsa ai massimi ed economia reale ai minimi, ma ora il mondo di Wall Street si è preso una carica decisamente importante.
Trump ha annunciato di aver scelto come segretario del tesoro un manager proveniente dalla palude acquitrinosa degli Hedge Funds, i fondi speculativi per eccellenza. Scott Bessent è anche uno dei tanti miliardari alla corte del principe, perché oramai è noto che negli Usa per salire in alto anche nel mondo della politica bisogna dimostrare di essere ultra-ricchi. L’uomo della finanza prende il posto di una stimata economista, già prima donna presidente della Fed, peraltro coniugata con George Akerlof, premio Nobel per l’economia nel 2001.
Siamo di fronte a un passaggio epocale, una transizione culturale dal mondo dell’economia reale di tipo keynesiano rappresentato dalla prof.ssa Yellen al mondo della finanza speculativa internazionale, il castello di Atlante della ricchezza che si forma e svanisce velocemente.
Due sono i punti più rilevanti dell’agenda del nuovo ministro. Uno vecchio e uno nuovo di zecca. Il primo, quello tradizionale, consiste nell’eterna promessa di una riduzione delle tasse. Abbandonata ormai come un vecchio relitto la curva di Laffer, non c’è più nessuna giustificazione teorica ma solo politico-elettorale. Questo è uno scenario già visto. Trump ha ridotto le tasse nel 2017 con il Tax Cuts. La sua riforma fiscale, come tutte quelle della destra conservatrice a partire dalla prima di Reagan del 1981, ha ridotto il carico fiscale soprattutto sulle fasce più ricche della popolazione. Chi era in fondo alla scala ha risparmiato pochi dollari al mese, chi in cima centinaia di migliaia di dollari secondo i risultati del Tax Policy Center. In particolare, nel 2017 è stata ridotta l’aliquota sul reddito delle imprese dal 35% al 21%, una riduzione veramente gigantesca.
Questo ha provocato la formazione di un volume inatteso di extraprofitti che non sono andati a ingrossare la spesa per investimenti, come sostenuto dai conservatori. Le grandi imprese hanno invece usato la liquidità sottratta al bilancio pubblico per acquistare le proprie azioni. La riduzione delle imposte societarie è andata a finire nelle tasche degli azionisti. Il danno collaterale, usiamo questo temine, è stato un’esplosione del debito pubblico senza precedenti. Ora è certo che Bessent non potrà essere generoso con la finanza come il primo Trump. In ogni caso la nuova riduzione andrà ancora una volta nelle tasche degli americani che possiedono titoli azionari, con buona pace dell’ingenuo agricoltore o operaio americano pro Trump che ha votato il miliardario nella speranza che il prezzo delle uova tornasse indietro di anni.
Se l’effetto tasse è chiaro, meno chiare sono invece le conseguenze delle politiche commerciali protezionistiche, il secondo punto forte della nuova amministrazione Trump. La teoria economica da almeno due secoli considera le tariffe doganali generalizzate uno strumento spuntato nelle relazioni economiche internazionali. Sono una misura drastica da usare con cautela e in circostanze molto particolari perché, se forse risolve i problemi industriali nel breve periodo, li aggrava nel lungo. In altre parole, i dazi sono un segno di debolezza economica e non di forza. Che l’economia Usa si nasconda dietro pesanti tariffe generalizzate è il sintomo di un declino che si cerca di contrastare malamente.
Non è un caso allora che nella dichiarazione di sostegno per Kamala Harris di svariati premi Nobel troviamo una folta schiera di economisti. Anche i Nobel per l’economia, insieme a tutti gli altri 82 firmatari, hanno preso la rincorsa alla lontana invitando gli elettori americani a bocciare Trump per il suo atteggiamento antiscientifico. La destra estremista americana ha un nemico pubblico, la scienza, e il luogo in cui si produce, l’università. Nel campo economico l’atteggiamento antiscientifico dà luogo a teorie veramente strampalate e che porterebbero, ad esempio, un tranquillo docente a bocciare uno studente che sostenesse che i dazi generalizzati possono aumentare il benessere economico di un paese. I dazi non migliorano l’economia, perché sono una tassa che formalmente è pagata dalle imprese straniere ma nella sostanza dai consumatori.
Non è chiaro cosa farà Trump con la sua retorica sui dazi. Forse si è trattato solo di una spacconata elettorale, ne ha dette tante, e poi farà marcia indietro all’insegna di un ritrovato rinsavimento. Se invece darà seguito alla sua proposta di introdurre dazi generalizzati su tutte le merci che entrano negli Usa sarà un interessante caso di stregoneria economica. Non è la prima volta. A suo tempo toccò a Bush dare alle proposte economiche di Reagan l’appellativo di voodoo-economics. Allora la formula magica diceva che tagliando le tasse tutto si sarebbe messo a posto; invece si è cominciato a creare la voragine del debito americano, ora al 120% del Pil. Adesso la nuova formula magica, con tanto di danzetta propiziatoria, è: mettiamo di dazi doganali. La conseguenza è una guerra, per ora solo commerciale, già iniziata sul fronte delle materie prime per la tecnologia.
Ce la farà il miliardario Bessent, mago della finanza, a rovesciare secoli di buona teoria economica? Staremo a vedere se saprà vendere anche all’economia, oltre che alla politica, la nuova voodoo economica dei dazi à gogo. Intanto, visto che i dazi sono per la destra la panacea dell’economia, si potrebbe cominciare a metterli sulle transazioni internazionali di capitali seguendo lo schema della Tobin tax. Questo sarebbe un buon inizio, ma credo che non accadrà.