Musica

Prima della Scala, “La forza del destino” di Giuseppe Verdi tra scaramanzia e leggenda

Fra critici, cantanti e pubblico si gioca a non pronunciarne il titolo originale per esteso

di Simona Griggio
Prima della Scala, “La forza del destino” di Giuseppe Verdi tra scaramanzia e leggenda

“La forza del destino, La forza del destino, La forza del destino”. Se non bisogna neppure nominare l’opera di Verdi che apre a Sant’Ambrogio la stagione del Teatro alla Scala di Milano perché considerata portatrice di jella, noi la nominiamo per ben tre volte di seguito. Non certo per gufare. Ma perché scaramantici non siamo e vogliamo dimostrare razionalità.

Alla Primina del 4 dicembre, del resto, quella dedicata agli Under 30, è andato tutto liscio, a dimostrazione che molto di ciò che si dice del titolo ‘maledetto’ di Giuseppe Verdi fa parte del folclore. C’è di più: l’opera mancava da decenni all’inaugurazione scaligera, e questo rende ancora più affascinante e carica di suspense l’attesa del 7 dicembre, con Riccardo Chailly sul podio e la regia spettacolare di Leo Muscato.La Serata inaugurale è dedicata alla “voce d’angelo” Renata Tebaldi nel ventennale della scomparsa.

Il sipario, alle 18, si aprirà su un cast di grandi nomi, a cominciare dalla star russa Anna Netrebko (Donna Leonora) che dividerà il palco del Piermarini con artisti del calibro di Brian Jagde (Don Alvaro), Ludovic Tézier (Don Carlo di Vargas), Vasilisa Berzhanskaya (Preziosilla), Alexander Vinogradov (Padre Guardiano), Marco Filippo Romano (Fra Melitone), Fabrizio Beggi (il Marchese di Calatrava), Carlo Bosi (Mastro Trabuco).

Ma perché quest’opera è considerata funesta e portatrice di disgrazie? Fra critici, cantanti e pubblico si gioca a non pronunciarne il titolo originale per esteso chiamandola, per esempio, “l’opera di San Pietroburgo”, “la potenza del fato”, “l’opera innominabile”. Fa parte del folclore oppure qualcosa di vero c’è? Nella sua storia c’è un fatto realmente accaduto, una disgrazia che lascia ancora oggi sbigottiti. Il 4 marzo del 1960 al Metropolitan di New York, il baritono Leonard Warren aveva appena finito di cantare “Morir, tremenda cosa”, quando fu colpito da un infarto e in effetti passò a miglio vita sul colpo.

Per lui, uno dei più grandi baritoni del secolo scorso, la tragica fine arrivò sul palco proprio mentre stava cantando di morte e destino, aspetti chiavi di quest’opera verdiana. Il devastante evento, avvenuto in un momento emozionale già denso di mistero e drammaticità, gettò per sempre quel titolo in un contesto sinistro.

Inoltre, dalle cronache dell’epoca sembra che la gravità dell’accaduto non fu compresa all’istante. Si pensava che il cantante avesse avuto un malore momentaneo e solo dopo che il basso Roald Reitan gli si avvicinò si rese conto che il collega era privo di sensi. Anche il direttore d’orchestra Thomas Schippers non comprese subito la situazione. Soltanto quando calò il silenzio sul palco si ordinò di abbassare il sipario. Ma Warren era già morto per una emorragia cerebrale fulminante.

Un altro evento negativo ha segnato la storia del titolo verdiano. Francesco Maria Piave, il librettista dell’opera, nel 1862 quando l’opera debuttò a San Pietroburgo, nel recitativo prima della sua aria mise queste parole in bocca a Don Alvaro: “Fallì l’impresa”. Quelle parole agli impresari teatrali, evidentemente scaramantici sul successo delle produzioni a cui aderivano, non furono gradite. Verdi allora decise, nella revisione che approdò alla Scala nel 1869, di sostituirle con “Fu vana impresa”, molto più accettabile.

La storia tuttavia non finisce così. C’è un nuovo avvenimento inquietante, se non bastasse, a rendere ancora più sinistro il ‘destino’ de “La forza del destino”.

Quello fu l’ultimo libretto che Piave scrisse per Verdi, poiché il librettista proprio negli anni seguenti fu vittima di una serie di sfortune a ripetizione, fra le quali l’insorgere della pazzia della madre e la grave malattia da cui lui stesso fu colpito, che lo paralizzò fino alla morte.

Tralasciando altre coincidenze come l’invasione di Hitler della Polonia mentre l’opera era in cartellone a Varsavia e quella del terremoto in Giappone mentre l’Orchestra del Maggio Fiorentino, nel marzo del 2011, la eseguiva a Tokyo, le circostanze della sua nomea di opera portatrice di jella sono già sufficienti. Basterebbe la prima che abbiamo citato per tutte.

Passiamo ora alla trama, che copre un arco narrativo di circa dieci anni, in Spagna e Italia nella metà del XVIII secolo. E’ l’adattamento di un’opera teatrale spagnola, “Don Alvaro o la fuerza del sino”, scritta nel 1835 da Ángel de Saavedra y Ramírez de Baquedano, noto come Duca di Rivas.

Ecco cosa succede sulla scena, nella finzione teatrale che si svolge proprio in Spagna. Nel primo atto i protagonisti sono due innamorati, Donna Leonora di Vargas (soprano), figlia del marchese di Calatrava, e Don Alvaro (tenore), che preparano la fuga per coronare il loro sogno di sposarsi. Ma arriva il marchese di Calatrava (basso) e sventa i loro piani. Tuttavia il giovane, dichiarandosi colpevole, butta a terra la pistola e incidentalmente uccide l’uomo. Non resta che fuggire nella notte.

Il secondo atto vede, tempo dopo, Don Carlo (baritono), fratello di Leonora, alla ricerca dei due amanti animato dalla vendetta. Giunge in una taverna affollata, fra i cui personaggi compaiono la zingara Preziosilla (mezzosoprano) e la stessa Leonora travestita da uomo. Dai suoi discorsi la ragazza scopre che il padre è ancora vivo. Allora va al Monastero della Vergine degli Angeli, svela la propria identità e invoca perdono decidendo di vivere in solitudine.

Nel terzo atto l’ambientazione si svolge in Italia, mentre infuria la guerra. Don Alvaro canta le sue disgrazie e spera di morire sul campo di battaglia. Si affida alla misericordia di Leonora che crede morta. Poi assiste un soldato ferito, ma senza sapere che si tratta di Don Carlo in persona, e gli affida una busta sigillata. Don Carlo però la apre e scopre che contiene il ritratto della sorella. Allora lo sfida a duello ma Don Alvaro si rifugia in monastero.

Cinque anni dopo, nel quarto atto, al Monastero degli Angeli avviene la fine inesorabile. Don Carlo sfida nuovamente a duello Don Alvaro, che inizialmente rifiuta ma alla fine è pronto ad affrontare il suo destino. Leonora, ancora innamorata di Don Alvaro, vede il suo amato che cerca un confessore dopo aver ferito a morte Don Carlo, ma viene pugnalata dal fratello ancora vivo per poco. Anche lei muore, ma tra le braccia di Don Alvaro, augurandosi di ritrovarlo in cielo. Ora l’unico rimasto è Alvaro, solo sulla Terra a maledire nuovamente il suo destino.

Il gioco di destini della narrazione, drammatici e sorprendenti come lo è la vita stessa, in quest’opera hanno avuto un corrispettivo in alcuni accadimenti reali legati alla storia delle sue rappresentazioni. Ecco perché si è creata una sorta di superstizione. La motivazione, almeno, è razionale.

(Foto di Brescia-Amisano)

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