Non “Sottoscala”, come la battezzano i critici più impietosi, ma sottotono. La Prima della Scala 2024 non ha visto i vip, gli eccessi e le follie che deliziano le cronache leggere del giorno dopo. Anche il palco reale era più esangue: assente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, assente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Erano a Parigi, alla inaugurazione della nuova Notre Dame, insieme a Donald Trump e Volodymyr Zelenskyj. La Prima della Ville lumiere ha oscurato quella milanese del tempio della musica. Erano a Parigi i signori della guerra e della pace; alla Scala, la guerra e la pace erano solo il tema dell’opera in scena, “La forza del destino” di Giuseppe Verdi, che la regia di Leo Muscato e le scene di Federica Parolini hanno resa drammatica, piena di macerie, di sangue, di lutto, di destini incrociati e di vite spezzate, di moschetti settecenteschi che diventano via via kalašnikov, di cupi bagliori di guerra da cui un germoglio di vita nuova emerge solo nell’ultima scena, spuntando da un tronco nero che pareva morto per sempre.
“Evviva la guerra, è bella la guerra”, cantano all’inizio, gioiosi, Preziosilla e i contadini, l’Alcalde e i mulattieri. Ricordano certi entusiasti difensori dell’Occidente oggi. Sul grande palcoscenico rotante della Scala gira la ruota della storia, il dramma personale di Leonora e Don Alvaro, ma anche quello collettivo della pace e della guerra. Nel foyer toni più sommessi, abiti meno appariscenti, vip quasi assenti. Nel palco reale a rappresentare le istituzioni ci sono il presidente del Senato Ignazio Benito La Russa, il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il ministro della Cultura Alessandro Giuli. Meno male che c’è qualche donna e soprattutto c’è la senatrice a vita Liliana Segre a rappresentare il meglio della Repubblica, o quel che ne resta.
Una Prima senza gran spolvero. La più elegante, Chiara Bazoli, in corpetto verde. La più eccentrica, come negli anni scorsi, Dvora Ancona, a fare réclame della sua impresa di estetica con un abito scuro adornato da specchi. Perfino Roberto D’Agostino, rinunciato al look clamoroso dello scorso anno, è in corretto abito scuro. La vipperia latita. Le mise mozzafiato delle signore quasi inesistenti. Qualche attore, Alessio Boni e Pierfrancesco Favino, il cantante Achille Lauro, l’étoile Roberto Bolle, lo stilista Giorgio Armani, il campione di salto in alto Gianmarco Tamberi, lo chef Bruno Barbieri, il wedding designer Enzo Miccio, la pianista Gloria Campaner, suo marito Alessandro Baricco, le vecchie glorie della lirica Placido Domingo, José Carreras, Raina Kabaiwanska, Francesco Meli.
Trionfa il nero, negli smoking degli uomini ma anche nelle mise delle signore. Sobrietà stile Armani per molti. Soprattutto per il potere vero, quello dei banchieri, dei finanzieri, degli imprenditori. Da Gian Maria Gros-Pietro (presidente di Intesa Sanpaolo) a Emma Marcegaglia, da Diana Bracco a Veronica Squinzi (Mapei), da Mario Monti (senza loden) a Giuseppe Castagna, ad di Banco Bpm oggi sotto assalto da parte di Credit Agricole (“Sono molto contento del loro investimento, ma è ancora molto lunga”). Tra il pubblico anche Josep Borrell, rappresentate dell’Unione europea per gli affari esteri.
La “zona rossa” istituita attorno al teatro, sotto la pioggia incessante, in previsione di annunciati disordini (divinati anche dal sindaco Sala) è stata un invito imperdibile per collettivi e centri sociali, che hanno mimato un attacco con qualche bomba carta e un paio di fumogeni, ma senza neppure tentare di sfondare il cordone di polizia. Sono riusciti però a dare, prima che tutto iniziasse, un segnale simbolico fuori dal teatro, abbastanza in linea con la scenografia cupa sul palcoscenico: hanno cosparso letame sul red carpet e sui ritratti di quelli che considerano i signori della guerra: il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ma anche Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Non c’è quest’anno il loggionista che grida “Viva l’Italia antifascista”. All’inizio dell’opera, una voce di donna urla: “Salvate Sant’Agata”. È la villa dove visse Verdi, diventata poi museo ma da due anni chiusa al pubblico e lasciata al degrado.
Il violinista Damiano Cottalasso rivela ai più una vecchia storia ben nota ai melomani: “Chi conosce quest’opera di Verdi non pronuncia mai il suo titolo per intero. È solo La forza. Mai dirlo tutto”, dice sorridendo. “Per scaramanzia: è un’opera che ha fama di non portare benissimo”. La Prima in sala è finita infatti malissimo per Leonora, Don Carlo e Don Alvaro. Benissimo invece per i loro interpreti e il direttore d’orchestra Riccardo Chailly, salutati da ripetuti applausi a scena aperta e da dodici minuti di ovazioni finali. Con qualche “Buuuu” per la soprano Anna Netrebko, a cui forse qualcuno non riesce a perdonare di essere nata russa.