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Separazione delle carriere dei magistrati, il viceministro Sisto: “Meno dell’1% dei pm diventa giudice? Domanda nociva”

Il governo ha incassato l'ok di Italia viva sulla riforma, ma i dati dicono che i cambi di funzione sono minimi. E allora perché il governo interviene?

Al 150esimo anniversario della legge istitutiva dell’ordine Forense, organizzato a Roma dal Consiglio Nazionale Forense, uno dei temi affrontati è la riforma sulla separazione delle carriere dei magistrati. All’interno del provvedimento doveva esserci anche l’inserimento del ruolo dell’avvocato in Costituzione, norma promessa dal ministro Carlo Nordio. Il guardasigilli, però, ha dovuto rimangiarsi con “rammarico” la promessa.
La riforma sulla separazione delle carreire, fortemente voluta da Forza Italia, “non è contro i magistrati” assicura Pietro Pittalis, deputato del partito guidato da Antonio Tajani. Un secondo prima Pittalis aveva detto che “certi magistrati andrebbero cacciati dall’ordine giudiziario”. Riforma che incassa l’ok di Italia viva come dichiarato nel corso dell’evento da Maria Elena Boschi. Al termine della giornata celebrativa per l’avvocatura italiana, al viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto riportiamo i dati forniti in sede di audizioni parlamentari dal primo presidente della Cassazione, Margherita Cassano. Su 9300 magistrati attivi in Italia nel 2024, negli ultimi cinque anni è pari allo 0,835 la percentuale dei pubblici ministeri con funzioni requirenti che sono passati a funzioni giudicanti; ed è lo 0,21 la percentuale dei giudici che sono passati a funzioni requirenti. Dati che renderebbero evidente come il cambio di funzioni sia un meccanismo ormai talmente marginale da non avere bisogno di una riforma ad hoc. “Questa domanda se fossimo in un procedimento penale si definirebbe nociva perché devia quello che è in tema”, sostiene Sisto. Ma i numeri non mentono. “Dipende i numeri di che”, replica il viceministro. “Il problema della separazione non è di quanti magistrati passano dalla funzione di pm alla giudicante e viceversa, è un problema culturale”.