Gentile assessora Elena Chiorino, vicepresidente della Regione Piemonte, deleghe al lavoro, formazione, istruzione e merito, università, welfare aziendale, rapporti con le società a partecipazione regionale. Fratelli d’Italia. Italiana. Sovranista, Patriota (dal suo profilo Fb).

Ho letto per l’ennesina volta la boutade sulla declinazione dei nomi al femminile. Quella logora, trita e ritrita, ripetuta fino alla noia sui social, ripresa da comici a corto di battute, e ahinoi, con scarsissima originalità pubblicata sul suo profilo social appena tre giorni fa: “A chi si ostina a chiamarmi assessora, chiedo perché per coerenza non declini anche dentisto, pediatro, camonisto”. Che tedio si prova a leggere, ancora, quella baggianata sulla declinazione di nomi che non hanno il singolare maschile. E’ davvero convinta che astronauta, elettricista, camionista, pediatra o dentista si possano dire: elettricisto, pediatro, astronauto? Se è così, allora si deve rivedere con urgenza la qualità della scuola italiana perché si è diffusa una pandemia di analfabetismo di ritorno anche tra certi patrioti (e patriote) che esigono che la lingua italiana sia padroneggiata “da chi viene a casa nostra e deve conoscere l’italiano”.

Potrebbe riflettere su un dato di fatto: i bambini e le bambine alle elementari, sono in grado di declinare i nomi al femminile ma nel corso degli anni, l’assorbimento di stereotipi li porta a credere che il mondo debba reggersi, pena l’Armageddon, su gerarchie. Una distorsione cognitiva fa percepire stonata e cacofonica la parità tra uomini e donne.

Cecilia Robustelli, docente di Studi Linguistici e culturali, nel 2014 ha pubblicato la guida per un uso della lingua al femminile, ben consapevole della funzione politica del linguaggio. Eppure, assessora Chiorino, lei pare non comprendere l’abc del suo lavoro. Le pubblico il link del testo Donne, grammatica e media, legga da pagina 47, le si aprirà un mondo. Scoprirà che quando ci riferiamo a mestieri che per classismo non riflettono prestigio sociale non abbiamo problemi ad apporre una “A”. Ma se si tratta di ruoli considerati prestigiosi, la declinazione al femminile diventa improvvisamente inopportuna.

Se è inopportuna la declinazione al femminile vuol dire che è inopportuna anche la donna che assume quella carica. Presenza indesiderata in un ruolo ipotecato dagli uomini. Non conosco il motivo che l’ha spinta a scrivere quel post. L’aspetto personale è un problema suo. Non mi riguarda. Ma lei ha un incarico pubblico e ciò che scrive ha un’altra valenza. La politica sta a cuore a tutte quelle attiviste che stanno impegnando le loro energie per azzerare le disparità economiche, aumentare le opportunità per le donne, contrastare le discriminazioni. Tra queste innumerevoli lotte c’è anche quella di porre fine alla cancellazione del femminile. Nessuna battaglia esclude l’altra.

Se la fanno sorridere le politiche femministe, smetta di usufruirne. Torni ai tempi passati, viva come se non fossero mai esistite le donne che hanno superato i divieti. Sono state generose, hanno sfidato un sistema culturale per loro stesse e per tutte le altre. Se non le garba, è libera di condurre la sua esistenza come ai tempi dello “statista” di Predappio che, tra uno spezzar di reni alla Grecia e le leggi razziali (e molto altro) mise in cantina il diritto al voto delle donne. Non solo. Nel 1926 vietò alle donne l’insegnamento nei licei, nel 1927 stabilì che i salari femminili fossero la metà di quelli maschili, inasprì il diritto di famiglia sottoponendo drasticamente le mogli all’ autorità del marito, predicò che la maternità fosse l’unico destino delle donne e la prolificità, ovvero sfornar figli, il loro unico valore.

Se ha potuto studiare, iscriversi all’università, se ha potuto votare, essere eletta ecc., lo deve all’impegno politico delle donne che l’hanno preceduta. Sono quelle che hanno voluto che l’articolo 3 della Costituzione non restasse una promessa. Ed è costato fatica. Ancora oggi, la banalità di una regola grammaticale, costa impegno ed energie. Se ci sono ancora tanti ostacoli, è anche a causa di persone che la pensano come lei. Solo nel 2017, le architette hanno ottenuto la possibilità di firmarsi e avere il timbro al femminile. Paola De Nicola Travaglini nel libro La Giudice (le consiglio la lettura), pubblicato nel 2012 e rivisto nel 2023, racconta del suo percorso in magistratura, carriera preclusa alle donne fino al 1963. Scrive: “La violenza maschile contro le donne non è solo un pugno che ti rompe il setto nasale, ma è anche l’omissione del valore del femminile, è l’annullamento linguistico della nostra presenza, è l’interruzione continua dei nostri ragionamenti, è una parata di maschi che discute degli effetti sulle donne del post Covid o del futuro del pianeta”. Evidentemente quella “A” non è una questione di lana caprina. Non crede?

Sta viaggiando in un mondo migliore di quello delle sue bisnonne grazie al lavoro delle altre. Sono certa che non abbia esitato a salire sul treno dei diritti, ci si è accomodata come le spettava, eppure non vuole dare il suo contributo pagando il prezzo del biglietto. Non dovrebbe dimenticare che glielo stanno pagando altre donne. Anche quelle che ‘si ostinano’ a chiamarla assessora.

@nadiesdaa

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