La morte di Eugenio Borgna, alla bella età di 94 anni, mi ha fatto riflettere sull’ultimo secolo di studi psichiatrici e sulle prospettive. Questo importante collega aveva vissuto, nei suoi primi anni di lavoro, la realtà del manicomio ove venivano internate le persone sofferenti. Questa esperienza veniva riportata a noi più giovani come veramente devastante in quanto, per incuria e menefreghismo, il malato era semplicemente abbandonato a se stesso, segregato e spesso maltrattato.
Il movimento culturale, di cui Borgna fu un importante sostenitore, che portò alla legge Basaglia di chiusura di queste strutture di segregazione poneva la necessità del dialogo col paziente. Il rifiuto a priori dei deliri o delle allucinazioni veniva sostituito dall’ascolto e dal tentativo di interpretazione e comprensione. Il dr Borgna in particolare si è a lungo occupato del significato interiore dei sintomi dei pazienti e dei contatti con la filosofia, la letteratura e l’arte.
Ricordo che io, giovane studente delle superiori, maturai in quegli anni la decisione di accostarmi al mondo della sofferenza mentale con tante speranze e velleità. La speranza che noi giovani medici nutrivamo era quella di aver trovato una chiave di lettura che ci permettesse di curare tutta la patologia mentale con nuovi strumenti basati sull’ascolto e sull’interpretazione.
Il manicomio in Italia era divenuto una sorta di carcere per cui era doveroso il suo superamento. Purtroppo però la foga distruttiva ha preso il sopravvento senza che al contempo si strutturassero adeguate organizzazioni territoriali di supporto alla sofferenza mentale. Si è passati, per un lungo periodo, in Italia a situazioni di assistenza psichiatrica a macchia di leopardo – per cui accanto a luoghi di eccellenza esistevano sacche di abbandono del malato che veniva lasciato in famiglia senza grandi supporti.
Alcuni colleghi coniarono il termine di “Terricomio” per descrivere questa situazione in cui la famiglia, senza grandi aiuti, doveva farsi carico della sofferenza del loro caro. Ricordo ad esempio il caso di un ragazzo che aveva il delirio di essere avvelenato. Non voleva assumere farmaci che immaginava velenosi e beveva in modo smodato per cercare di eliminare il veleno che, a suo dire, ogni tanto qualcuno di notte gli somministrava. A forza di bere in modo abnorme arrivava a uno stato di mancanza di sali minerali di tale entità da provocare il coma. Veniva ricoverato alcuni giorni per poi, una volta dimesso, ricominciare a bere. I familiari disperati dovettero chiudere con dei lucchetti tutti i rubinetti di casa. Capite che vivere in queste situazioni provocava nella famiglia un grandissimo malessere.
Per ovviare a queste carenze noi giovani psichiatri cominciammo ad organizzare strutture di aiuto. Dove operavo io organizzammo un ospedale diurno ove il paziente poteva accedere e venire supportato dalla mattina alla sera. Accanto una struttura residenziale con pochi posti letto ove, nel caso di necessità, dormire e appartamenti protetti (luoghi in cui i pazienti in piccoli gruppi vivevano ma con la presenza abbastanza continuativa di infermieri e medici che andavano a somministrare i farmaci e a valutare i problemi e emergenti). Soprattutto l’assistenza domiciliare con visite mediche e infermieristiche a casa diveniva in questa ottica il modo per superare in tanti casi la necessità dell’internamento.
Dopo un periodo di entusiasmo dovemmo constatare le carenze sempre più evidenti di personale, strutture e finanziamenti – oltre che i bastoni fra le ruote messi da colleghi in posti di potere da politici che non vedevano di buon occhio le innovazioni. Molto deluso anche io mi licenziai dal servizio pubblico e rimasi solo a svolgere insegnamenti e ricerche universitarie, oltre alla libera professione da psicoterapeuta.
Negli ultimi anni assistiamo a una sorta di tracollo dell’assistenza psichiatrica territoriale che a malapena riesce a gestire le urgenze. Naturalmente se non si attua una prevenzione e una presa in carico dei pazienti, questi diverranno oggi o domani tutti urgenti alimentando una spirale negativa.
Pare che gli insegnamenti del dr Borgna e di tutti coloro che come lui auspicavano il superamento della visione del malato come problema da risolvere con un ricovero o medicine in quantità per sedare la situazione urgente sia stata dimenticata. Rimane fortunatamente l’esperienza sul campo di chi, utilizzando l’ascolto empatico e il dialogo auspicati da Borgna, ha sperimentato che il dolore del paziente si attenua e che le stramberie che costellano la sua esistenza divengono comprensibili. Soprattutto la presa in carico nel tempo della persona sofferente è uno strumento fondamentale per permettere di disinnescare le situazioni di urgenza e permettergli una vita degna. Per attuare tutto questo occorrono investimenti in personale e strutture oltre che nella formazione dei giovani.