“Aleppo è da sempre un punto di incontro per le civiltà e con una lunga storia di diversità religiose e culturali: rimarrà così”. Queste le parole di Abu Mohammad al Jolani, fondamentalista, con una taglia di dieci milioni di dollari sul capo, pronunciate appena qualche giorno fa, dopo aver preso la seconda città della Siria. “Chiedo ai miei uomini – aveva continuato – di calmare i dubbi delle persone di tutte le comunità (religiose)”. Sempre in quelle ore, voci non confermate né poi smentite, avevano riferito che al Jolani volesse proporre Hanna al Jallouf, vicario apostolico di Aleppo, come sindaco della città. Una mossa atipica per chi, come al Jolani e il suo gruppo, sono stati descritti come dei tagliagole che potrebbero trasformare la Siria in un nuovo Afghanistan.

Un paragone che non regge. Fin dall’inizio dell’operazione che in dieci giorni ha messo fine al regime cinquantennale della famiglia Assad, il leader del variegato fronte delle opposizioni siriane sostenute da Ankara, ha mandato segnali in contrasto con la sua storia recente. Non si è ancora visto, come in molti analisti occidentali si aspettavano, l’imposizione della legge islamica né una immediata persecuzione delle minoranze religiose. Anzi, il radicalismo di al Jolani è figlio del fondamentalismo siriano che, a differenza di quello proveniente dall’esterno, cioè da figure esogene all’identità siriana, è consapevole. Nel senso che è sì un fondamentalismo che vede il primato dell’Islam sulle altre religioni ma che, essendo un radicalismo confinato alla Siria, è cosciente della storia di coabitazione con gli altri. D’altronde, sosteneva padre Paolo Dall’Oglio, gesuita italiano sequestrato in Siria nel luglio del 2013, qui c’è un “islam locale dialogante”. Con questa espressione intendeva che l’Islam siriano, in funzione della sua storia millenaria di convivenza con molte altre confessioni, aveva sviluppato degli anticorpi al fondamentalismo, riuscendo a contenerlo.

Proprio per questo la Siria non è l’Afghanistan, ma può essere un nuovo Libano nel futuro. Hayath Tahrir al Sham non sono i Talebani, ma possono essere come Hezbollah – il partito di Dio –, cioè (nel peggiore degli scenari) trasformarsi in un movimento di stampo religioso all’interno di un sistema statale gestito dai diversi poteri politici divisi su base confessionale. Questa trasformazione di facciata, da milizia a forza politica, sembra già in atto. Infatti, nonostante la presa del potere dell’opposizione guidata da jihadisti, questi ultimi sono consapevoli di dover affrontare una transizione e di dover includere la totalità della società siriana.

A differenza dei Talebani, che chiusero subito il Paese imponendo leggi vessatorie contro le donne, vietando le arti e qualsiasi altro credo, questi fondamentalisti siriani, cresciuti in Siria e imbevuti della storia dell’Islam autoctono, hanno lasciato un governo transitorio presieduto da pezzi del vecchio regime e non hanno bruciato chiese o altri luoghi di culto non sunniti. Perfino il registro di comunicazione di al Jolani è cambiato, così come la sua presenza fisica. A differenza dei talebani, non veste più con abiti tradizionali a richiamo del passato. Vuole essere un uomo di Stato, moderno. Così come è cambiata Al Nusra, l’organizzazione jihadista fondata da lui che rappresentò gli interessi di al Qaida in Siria. In un primo momento, nel il 2012, si alleò con l’Isis e il califfo Abu Baker al Baghdadi.

Jolani e i suoi sposarono l’idea di una jihad globale e totale, attuabile solo con orrori in cui il nemico era il “crociato” o tutti coloro che non si riconvertivano alla loro visione dell’Islam. Il risultato fu una attenzione mondiale che rafforzò Assad come baluardo alla lotta contro il radicalismo e puntò i riflettori sulla galassia integralista nel Paese. Dal momento in cui al Nusra sciolse i legami con alQaida, e poi con l’Isis, avviò un opera di ripulitura dell’immagine. Nel 2017 al Nusra cessò di esistere, lasciando spazio alla neonata Organizzazione per la liberazione del levante, HTS, che, dopo aver preso il controllò della provincia di Idlib, cominciò a cooptare i gruppi di opposizione e uscire dall’angolo, instaurando un dialogo con i vari attori locali. Un qualcosa che i talebani non hanno mai fatto, preferendo l’isolamento.

L’ultimo tassello, quello che separa la Siria dallo scenario afghano, è la stessa società siriana che ha una diaspora estera molto numerosa, benestante e influente. Mentre al suo interno la parte moderna della Siria, milioni di sunniti, cristiani e alawiti, hanno a mente che l’integrità del Paese la si mantiene se si resta uniti. Così come è chiaro per l’opposizione politica interna, incarcerata e silenziata per decenni, che, insieme ai gruppi politici siriani all’estero, sta preparandosi a guidare il Paese verso una transizione lunga e difficile ma che non porterà la Siria all’età della pietra. Ma forse all’instabilità.

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