Ci sono momenti – rarissimi – in cui il Mondo respira la speranza: l’alba del 5 novembre 2008, quando Barack Obama venne eletto 44° presidente degli Stati Uniti, fu uno di quelli. Il primo nero alla Casa Bianca prometteva di chiudere le guerre di George W. Bush del dopo 11 settembre 2001 e di fare tornare a casa “i ragazzi dall’Afghanistan e dall’Iraq”, di svuotare e smantellare quell’insulto ai diritti umani che è il carcere di Guantanamo e di cancellare il ricorso alla tortura nella lotta contro il terrorismo e gli eccessi del Patriot Act.
Quando, nell’autunno del 2009, Obama vinse il Nobel per la Pace, che gli fu poi consegnato a Oslo il 10 dicembre di quell’anno, 15 anni or sono esatti, tutti capirono che il riconoscimento gli era stato dato in anticipo, sulla fiducia, ma molti pure pensarono che se l’era comunque guadagnato facendo, in campagna elettorale, promesse che stava per mantenere e, soprattutto, dicendo di essere disposto a incontrare i nemici dell’America. Un modo di respingere la logica dello ‘scontro fra civiltà’ che aveva segnato gli anni dopo l’attacco all’America, nella consapevolezza che la pace si fa col nemico, non contro il nemico – una banalità, che nella guerra in Ucraina fatichiamo a ricordare -.
Era speranza diffusa che Obama si sarebbe meritato il Nobel ex post. Purtroppo, non è stato così: non finì la guerra in Afghanistan, nonostante il successo dell’eliminazione del leader di al Qaida Osama bin Laden, ormai ridotto a pensionato del terrorismo – lo fece nel 2020 Donald Trump, negoziando con i talebani una resa attuata, in modo disastroso, da Joe Biden l’anno dopo -; e non chiuse il carcere di Guantanamo, che è tuttora aperto, tra indicibili imbarazzi giudiziari. E quando stipulò accordi per ritirare dall’Iraq nel 2015 i militari americani – che, fra l‘altro, sono ancora lì, nove anni dopo -, aprì la strada all’espansione del sedicente Stato islamico dell’Iraq e del Levante, l’Isis, di cui l’autoproclamato califfo Abu al-Baghdadi aveva annunciato la nascita il 29 giugno 2014 nella moschea al-Nouri di Mosul.
Ma furono le Primavere arabe a compromettere totalmente l’immagine di Obama profeta di pace: salutate all’inizio come scintilla di democrazia in una Regione che democrazia ne ha sempre vista poca e ipocritamente incoraggiate dalle diplomazie occidentali, che fino al giorno prima facevano comunella con gli autocrati, hanno prodotto frutti marci. L’Egitto e la Tunisia, che le vissero con maggiore intensità, hanno oggi regimi che non sono certo migliori di quelli al tempo rovesciati di Hosni Mubarak e di Ben Alì. E la marcia indietro dell’Egitto è avvenuta con un colpo di Stato avallato dall’Occidente, perché gli egiziani, una volta resa loro la libertà di scelta, l’avevano ‘usata male’, eleggendo presidente Mohamed Morsi e dando il potere ai Fratelli musulmani.
Peggio è andata in Libia e in Siria. In Libia, l’Amministrazione Obama diede delle primavere arabe una versione bellica: il cambio di regime fu indotto non dal basso, ma letteralmente dall’alto, cioè con bombardamenti Nato. Risultato, uno Stato fallito, che 13 anni dopo non ha né unità territoriale né un governo che controlli il Paese.
In Siria, Obama sperimentò, nel 2014, il suo smacco più bruciante, quando tracciò una linea rossa che il regime di Bashar al Assad non doveva superare, l’uso di armi chimiche contro il suo popolo: Assad le usò e Obama non reagì, facendosi cavare d’impaccio dal presidente russo Vladimir Putin, che prese in mano la situazione, garantendo, di fatto, ad Assad un altro decennio di potere assoluto. La situazione, adesso, è improvvisamente precipitata dopo una guerra fra bande più che un’insurrezione di popolo; e il Paese è ora al bivio tra un altro Stato fallito, attraversato da divisioni ideologiche, religiose, etniche, con fette di territorio controllato da eserciti stranieri o da milizie, e una riedizione dell’Isis dal volto apparentemente dialogante, ma dai risvolti tutti da scoprire.
Obama era il terzo presidente degli Stati Uniti in esercizio a vincere il Nobel per la Pace: il primo era stato nel 1906 Theodore Roosevelt, premiato per avere contribuito alla fine della Guerra russo-giapponese – un’assegnazione discutibile; il secondo nel 1919 Woodrow Wilson, per la creazione della Società delle Nazioni.
All’inizio del XXI Secolo, il comitato che decide l’attribuzione del Nobel per la Pace, si mostrò generoso coi politici statunitensi. Nel 2002, lo aveva assegnato a Jimmy Carter, presidente dal 1977 al 1981, un coltivatore di noccioline della Georgia destinato a diventare il primo presidente Usa ultracentenario – ha compiuto il secondo quest’anno -, che si era meritato il riconoscimento dopo avere lasciato la Casa Bianca “per l’impegno instancabile decennale per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, per far avanzare democrazia e diritti umani, per promuovere lo sviluppo economico e sociale”.
Nel 2007, lo aveva vinto Al Gore, il vice di Bill Clinton dal 1993 al 2001, convinto ecologista, premiato “per gli sforzi per costruire e diffondere una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici causati dall’uomo e per aver gettato le basi per le misure necessarie per contrastarli”. Carter, Gore, Obama furono un trittico di Nobel ‘anti – George W. Bush’, il presidente dal 2001 al 2009, l’uomo che incarnò la scelta di combattere il terrorismo con la guerra e la tortura
Quindici anni dopo, la lezione, che i saggi di Oslo sembrano avere recepito, è mai più Nobel per la Pace sulla fiducia, a priori. L’interrogativo è se prima o poi ci sarà un presidente degli Stati Uniti, o un qualsiasi leader mondiale. che se lo meriti per avere davvero fatto la pace dove c’era la guerra o per avere scelto il dialogo invece del conflitto.