di Paolo

Tanti anni fa riparavo vecchi macchinari in fabbriche ancor più vecchie. Un giorno, attendevo nella guardiola d’una grande azienda che produceva componenti per aeromobili. Dopo di me entrò un sindacalista ed io non ne avevo mai visto uno in vita mia, se non in TV. Un signore vestito di tutto punto, giacca, cravatta e fazzoletto rosso da taschino. Non voglio dire cose inesatte, perché è passato molto tempo, ma ricordo solo che sfoggiò un ampio sorriso e fece un discorso del tipo: “Hanno vinto i nostri”.

Quando raccontai la cosa a un collega, accennò una smorfia e usò parole che non scrivo perché farebbero arrossire persino la tastiera. La cosa evidente però, era che il suo disprezzo era legato al fatto che la cosa non c’entrasse nulla con i diritti. All’epoca non avevo un’idea precisa, anche perché la mia categoria non aveva e non ha sindacato. Sapevo che, come capita altrove, c’era un sacco di gente che non faceva il proprio lavoro, così mi venne una battuta che vado a parafrasare: “L’operaio fa un lavoro e percepisce uno stipendio, il sindacalista è anch’esso un operaio che fa un lavoro ed è percepire lo stipendio”.

Forse i sindacati hanno dimenticato il motivo per cui sono nati e certamente è sbagliato generalizzare. Purtroppo la politica è spesso sia soluzione che problema. Un insieme di insiemi che sposta i problemi in compartimenti stagni, di modo che, a seconda del periodo, se ne possa sganciare uno come fosse il vagone di un treno e agganciare il penultimo, facendo sparire come per magia tutto quello che c’è in mezzo.

Il salario minimo nel 2021 per Landini non era una priorità, ma uno dei tanti in fila dopo i contratti pirata, l’abbassamento della tassazione dei lavoratori dipendenti, gli ammortizzatori sociali, la contrattazione collettiva, ecc. Va bene. Nel 2023 Landini era per il “Sì, ma con riserva”. Con un altro paio di cambi di segretari del Pd e di governi, forse avremo finalmente il golden buzz.

Di Maio s’opponeva a tutto quello che è ora, e quando leggo le sue dichiarazioni, è come assistere all’operato di un baco operoso che, col ridicolo, ci si è fatto tutto il guardaroba. In quanto rappresentante speciale per la regione del Golfo, ci dicono contribuisca come mai nessuno, a facilitare in secondo piano, la comprensione del ruolo dell’Unione stessa nella regione e in prima istanza, a chiarire a se stesso cosa voglia dire.

Tuttavia, quando veniva accusato d’essere un feudatario nella terra delle carriole, diceva una cosa sensata: “Dobbiamo dare possibilità alle associazioni giovanili di contare nei tavoli di contrattazione, serve più ricambio nelle organizzazioni sindacali. O i sindacati si autoriformano o, quando saremo al governo, faremo noi la riforma”. I sindacati lo sbranarono e la segretaria della Cgil, Camusso (ora nel Pd), parlò di “linguaggio autoritario e insopportabile”. Ovviamente non se ne fece nulla, ma sarebbe così orribile dare spazio ad altre organizzazioni sindacali? Non possiamo mica parlare sempre “delle tre grandi”, neanche fosse una citazione del film “Tucker – Un uomo e il suo sogno”.

Mai come ora c’è bisogno dei sindacati, ma sarebbe bello che il treno facesse il giro completo con tutti i vagoni attaccati, magari aggiungendone di nuovi senza guardare alla stazione di transito, al capostazione o al macchinista e, per l’amor del cielo, alla parte politica. Né governo né sindacati possono creare lavoro dal nulla, il primo dovrebbe limitarsi alle infrastrutture, il secondo a garantire i diritti dei lavoratori. Invece il primo, tra una precettazione e l’altra, propone idee di quant’anni fa (il liceo del made in Italy, per dirne una), ci manca il bonus terreno e derrata alimentare per il trentesimo figlio. I sindacati del resto devono fare altre cose oltre a quelle per cui sono nati, i tempi lo richiedono. Il problema è che scelgono roba che farebbe un partito e di quelli ce ne sono sin troppi. Resta il lavoratore che guarda alla situazione come ad un bar sciccoso: un posto affollato che non ha niente per lui.

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